9 giugno 2025

Daryl Zed: chi sono i mostri?

La pubblicazione in unico volume della miniserie dedicata a Daryl Zed era attesa dal 2020, ma ha visto la luce soltanto a maggio di quest'anno. L'albo tutto a colori di 192 pagine, ovviamente a cura di Sergio Bonelli Editore, è disponibile in edicola al prezzo di 7,90 euro. Il volume era già pronto da anni, come detto, ma non era mai stato distribuito. Le ragioni del ritardo sono state spiegate da Tiziano Sclavi in una lettera aperta che potete trovare sul sito della Bonelli.
Daryl Zed è un'opera di meta-fumetto, nel senso che si tratta di un espediente narrativo per cui un fumetto (Dylan Dog) contiene al suo interno un'altra testata (Daryl Zed), che a sua volta contiene un terzo fumetto (ancora una volta Dylan Dog). Nella finzione letteraria di Dylan Dog, Daryl Zed è un fumetto scritto da un amico di Dylan ispirandosi proprio alla figura dell'Indagatore dell'incubo. E nella finzione letteraria di Daryl Zed c'è un amico del protagonista, un fumettista chiamato Tiz con le sembianze di Sclavi, che ha creato un fumetto chiamato Dylan Dog, ispirandosi alle avventure di Daryl. Insomma, un complicato gioco di scatole cinesi in cui Dylan è fonte di ispirazione per Daryl che a sua volta è fonte di ispirazione per un altro Dylan.
Il personaggio fece la propria comparsa nell'albo 69 di Dylan Dog, intitolato Caccia alle streghe, celebre soprattutto perché si inserì nella vera e propria crociata che taluni esponenti della politica e dell'associazionismo lanciarono all'epoca contro alcuni fumetti, ritenuti un'incitazione alla violenza, se non addirittura un'istigazione a delinquere. Quelle prese di posizione, lo dico per inciso, fanno quantomeno sorridere se pensiamo ai giorni nostri, in cui smartphone e social stanno creando un esercito di veri e propri zombies privi di fantasia, al confronto dei quali i tanto bistrattati fumetti avevano quantomeno la capacità di stimolare l'immaginazione dei lettori.
Daryl Zed non è altri che un personaggio secondario (anzi, del tutto marginale) che diventa protagonista di una propria serie. L'albo della Bonelli ora in edicola contiene tre storie, tutte legate da un filo conduttore: I mostri sono loro (Faraci/Mari), Il sangue è acqua (Faraci/Stano) e Cerchio chiuso (Faraci/Dell'Edera). Il tutto condito da una vivace colorazione in stile pop art con le pagine deliziosamente ingiallite, a dare un'aura rétro.
Il protagonista è semplicemente un cacciatore di mostri, come chiarisce anche il titolo dell'albo, un uomo tutto d'un pezzo dalla mascella squadrata e dai modi bruschi che per lavoro libera il mondo da ogni sorta di creatura malvagia: alieni, rettiliani, licantropi e soprattutto vampiri. Una specie di Maurizio Merli o Luc Merenda nei panni del commissario di ferro dei poliziotteschi italiani degli anni Settanta. Daryl si muove in un mondo che potrebbe appartenere al recente passato o al prossimo futuro, caratterizzato da atmosfere cupe e spesso violente, un mondo che è messo in pericolo dai crimini efferati commessi da bizzarre creature, per l'appunto i mostri. È pertanto necessario l'intervento repressivo della polizia, coadiuvata dal nostro eroe. Una trama semplice, una struttura classica e lineare, potremmo dire tagliata con l'accetta, tutto il contrario delle raffinatezze di Dylan Dog. Daryl infatti non è un personaggio con velleità artistiche o letterarie; ha lo sguardo cinico e duro, porta sempre in bella vista una pistola e parla come un qualsiasi piedipiatti di un romanzo hard boiled.
Ci sono delle somiglianze tra Dylan e Daryl: entrambi hanno un amico poliziotto, sono schivi e solitari, vivono situazioni al limite con personaggi ricorrenti (su tutti, Johnny Freak). È però diversa, anzi antitetica, la filosofia dei due personaggi, la prospettiva da cui osservano la realtà. Dylan è un uomo tormentato che sa di non avere la verità in tasca; per lui il mondo non è solo bianco e nero, ma fatto di tante gradazioni di grigio, al punto che non è facile capire chi siano davvero i mostri. «I mostri siamo noi» è solito ripetere, a voler significare che il male può albergare in tutti, qualunque significato possa avere il concetto di "male", che per Dylan non è universale. Daryl invece ha una visione manichea del mondo, fatto di buoni e cattivi, dove i primi sono indiscutibilmente positivi e i secondi sono irrimediabilmente malvagi; non esistono sfumature, non è possibile sbagliare e i mostri vanno liquidati senza pietà né ripensamenti. «I mostri sono loro» è solito affermare, né ammette che tale assunto possa essere messo in dubbio.
Leggere Daryl Zed è come affrontare Dylan Dog in una prospettiva rovesciata, un gioco degli specchi in cui l'orrore è il medesimo ma senza possibilità di redenzione o di differenti interpretazioni. La domanda allora resta aperta: ma chi sono veramente i mostri, noi o loro?

26 maggio 2025

"Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Erich Maria Remarque: la generazione tradita

Voler parlare su queste pagine di un romanzo così celebre e celebrato ha poco senso. D'altronde, cosa mai si potrà dire di nuovo? Al tempo stesso, però, quando un libro è un classico ha sempre qualcosa da raccontare, anche a distanza di anni e di migliaia di recensioni e saggi critici.
Dell'opera principale di Remarque, vero e proprio classico moderno, è stato scritto tutto; tradotta in tante lingue e venduta in milioni di copie, non c'è bancarella dell'usato in cui non se ne trovi anche più di un esemplare. La trama è arcinota: alcuni giovani studenti tedeschi, infiammati dalla propaganda sciovinista, si arruolano volontari per combattere nella Prima guerra mondiale, inconsapevoli di ciò che li attende una volta giunti al fronte. Moriranno quasi tutti, schiantati dalle artiglierie, colpiti da proiettili vaganti, dilaniati dalle schegge, avvelenati dai gas, perfino pugnalati nei terribili assalti all'arma bianca nelle trincee nemiche. Il libro nulla nasconde degli orrori visti e delle sofferenze patite da tutti quei giovani, alcuni poco più che bambini. Un resoconto autentico, duro e tagliente come sa essere solo la verità.
Consapevole di non poter dire nulla di nuovo o di originale, voglio concentrarmi soltanto su un aspetto, quello che mi ha colpito di più. Perché se è vero che Niente di nuovo sul fronte occidentale è principalmente un grido d'accusa contro l'insensatezza della guerra e uno straordinario manifesto pacifista, c'è un altro tema che a Remarque stava particolarmente a cuore, ovvero il tradimento generazionale. Paul e gli altri sono convinti ad arruolarsi dal loro professore di liceo, il nazionalista Kantorek. Questi è un uomo tutto sommato insignificante, che tuttavia grazie a doti retoriche e al carisma esercitato sugli studenti per via del suo ruolo, li persuade ad arruolarsi volontari, di fatto spedendoli al macello. È lui il vero traditore, secondo Remarque, un uomo che ha barattato il suo ruolo di educatore con gli ideali stantii del nazionalismo e del bellicismo.
«Essi dovevano essere per noi diciottenni introduttori e guide dell'età virile, condurci al mondo del lavoro, al dovere, alla cultura e al progresso; insomma all'avvenire. […] Al concetto dell'autorità di cui erano rivestiti, si univa nelle nostre menti un'idea di maggiore prudenza, di più umano sapere. Ma il primo morto che vedemmo mandò in frantumi questa convinzione. Dovemmo riconoscere che la nostra età era più onesta della loro. […] Il primo fuoco tambureggiante ci rivelò il nostro errore, e dietro ad esso crollò la concezione del mondo che ci avevano insegnata.»
Questo è, secondo me, il tema centrale del romanzo, un significato forse più nascosto rispetto al palese messaggio pacifista (o meglio, antimilitarista tout court), eppure altrettanto se non addirittura più potente. I valori propagandati dalla classe dirigente crollano al ritmo del disvelamento delle loro menzogne, cadono nelle trincee fangose, sebbene i "professori" continuino imperterriti a propagandarli. E così i civili rimasti a casa non conoscono nulla del fronte, se non le mezze verità e le clamorose bugie raccontate dagli organi di stampa e dalla propaganda. Si opera pertanto un brusco taglio generazionale, destinato a non ricucirsi più. Gli adulti, coloro che avrebbero dovuto istruire i giovani e prepararli al futuro, li hanno invece condotti al massacro sull'onda di discorsi patriottici che si sono rivelati fallaci e menzogneri. La loro colpa è gravissima, quella di aver "contaminato i più schietti sentimenti giovanili", come argutamente riportato nell'introduzione di una vecchia edizione Oscar Mondadori. È la rottura di un patto generazionale, il tradimento della missione educativa, il traviamento dei ragazzi, portati su una strada sanguinosa che da soli mai avrebbero intrapreso. Il grido di rabbia di Remarque è dunque diretto contro quei burattinai che, ben nascosti nelle retrovie, hanno fomentato nei giovani un artificioso spirito belluino che in natura non gli apparteneva.
I soldati di Remarque sono costretti a sparare contro il proprio futuro; il loro è un destino di desolazione, anche per quanti sono all'apparenza scampati alla morte. La migliore gioventù ridotta a un bivacco di profughi lacerati nell'anima, una generazione annientata nel corpo e nello spirito, al punto che anche chi rimane non è davvero un sopravvissuto. Ragazzi a cui la porta dell'avvenire è stata definitivamente chiusa in faccia, perché anche quando torneranno a casa non troveranno che macerie.

13 maggio 2025

Sad Lovers and Giants: persi in un mare di sospiri

Quando si parla di un genere musicale con chi ne è appassionato, è matematico che tirerà fuori la vecchia storia della band sconosciuta ai più, quella che "se solo avesse avuto un pizzico di fortuna all'epoca", verrebbe oggi ricordata tra le più influenti del periodo. Criminally underrated, come dicono gli inglesi. Ogni genere ha le sue perle nascoste e la new wave non è da meno. Perché se è vero che tutti conoscono i Joy Division, pochi ricordano The Chameleons e ancora meno hanno sentito parlare di Sad Lovers and Giants (d'ora in avanti, SLaG). E non perché, si badi bene, fossero un gruppo di nicchia, in quanto ai tempi ottennero la loro fetta di successo e tuttora girano in tour. La verità è che nel palcoscenico così fitto di comparse che sono stati gli anni Ottanta inglesi, è fisiologico che alcuni vengano dimenticati, non necessariamente i più scarsi.
Gli amanti tristi e giganti, nome che tradotto in italiano ha un che di naif ma che in inglese suona benissimo, si formarono in Inghilterra nel 1980. La formazione originaria, quella che suonò nei primi due album, era composta da Garce Allard alla voce, Cliff Silver al basso, Tristan Garel-Funk alle chitarre, il batterista Nigel Pollard e David Wood alle tastiere e sassofono. Pollard e Garel-Funk lasciarono la band poco dopo la registrazione del secondo LP e fondarono The Snake Corps.
Se il vinile d'esordio, Epic garden music (1982), conteneva già un pezzo epocale come Clint, cui si aggiunge il capolavoro Things we never did della ristampa in cd con tracce bonus, è con Feeding the flame (1983) che il quintetto fece un deciso balzo in avanti. Copertina algida e inquieta, uno scorcio di paesaggio invernale che ricorda l'immagine del coevo Porcupine di Echo & The Bunnymen. Immagine di copertina che fa da preludio a quanto stiamo per sentire: musica malinconica per anime in disarmo. Viene naturale il paragone con gruppi più blasonati, forse perché parrebbe un azzardo affermare che siano questi ultimi a essersi ispirati ai SLaG; si sentono echi di Cure, Sound, Chameleons, Sisters of Mercy, Bauhaus. La loro è una new wave cupa e dolorosa che abbraccia il dark e il goth, limandone però gli eccessi. Musica per chi è «perso in un mare pieno di sospiri», come recita uno dei loro versi più celebri. Un ritmo compassato che tuttavia sa esplodere in sorprendenti barbagli di luce, come nel ritornello di On another day, per me la più preziosa del mazzo.
«On another day
you would swear my judgment was wrong.
Tracing neat escapes,
now the soft attraction has gone.»
I primi solchi sono quelli di Big tracks little tracks, che detta da subito le regole del gioco: basso possente e chitarre lancinanti, sostenute da una batteria incalzante e uno straniante interludio di sassofono. Evidenti le influenze post-punk, ma è altresì chiaro che i nostri cercavano una via autonoma. Segue la citata On another day, un volo a due palmi da terra con gli effetti delle chitarre e il tappeto di tastiere che disegnano un'atmosfera eterea e soffusa: un viaggio lisergico, una sorta di psichedelia wave. La successiva Sleep (is for everyone) rievoca trame gotiche, mentre Vendetta ricorda i Japan di Ghosts (di un paio d'anni prima), con la voce di Garce che ripercorre le tracce di Sylvian per sfumare infine nell'ammaliante base di chitarre e tastiere. La prima facciata si chiude con l'esplosività di Man of straw, paragonabile per furia a The fire dei più celebri The Sound: un pezzo potente con le chitarre sempre avanti e una sezione ritmica precisa, in puro stile post-punk. Il lato B è meno ispirato e contiene quattro brani, di cui uno strumentale. Senza dubbio la migliore è Your skin and mine, ballata d'amore che si esalta nei delicati contrappunti di chitarre e tastiere, vero e proprio marchio di fabbrica dei SLaG. E quando sembra che il pezzo sia concluso, arriva una lunga coda strumentale in puro incedere dark-wave. Meravigliosa, può contendere a On another day la palma di migliore.
Feeding the flame è un disco che non può mancare nella collezione di un appassionato di new wave. Certo non è un album fondamentale in assoluto, per cui non lo consiglierei a chi si approccia per la prima volta al genere; tuttavia è un tassello importante che testimonia un'epoca di grande creatività, in cui persino nomi meno noti come i Sad Lovers and Giants erano in grado di lasciare il segno. Se siamo qui a parlarne dopo più di quarant'anni, ci sarà un motivo.
L'algida immagine di copertina

30 aprile 2025

"L'ombra del suicidio" di Carlo Bernari: un no-global ante litteram

Carlo Bernari (Napoli, 1909 – Roma, 1992) è noto soprattutto per Tre operai, romanzo sui temi del lavoro e delle condizioni della classe operaia che pubblicò giovanissimo, nel 1934. Due anni dopo ultimò un romanzo breve che riprendeva alcune tematiche già trattate, concentrandosi stavolta su quella misera classe impiegatizia che tutto sommato non se la passava tanto meglio. L'opera, sia pur compiuta, rimase inedita fino al 1993, quando fu pubblicata in prima edizione assoluta dalla Newton Compton nella celebre collana "Tascabili Economici 100 pagine, 1000 lire", con il titolo L'ombra del suicidio e il sottotitolo Lo strano Conserti.
Conserti è il protagonista del romanzo, anzi un deus ex machina, il vero e proprio motore dell'azione e nucleo intorno al quale ruotano tutte le vicende e gli altri personaggi, ridotti quasi a comparse. Uomo misterioso e controverso – "strano", come lo definisce il sottotitolo –, di lui sappiamo poco o nulla, salvo qualche scampolo del passato. Sappiamo solo che è un meridionale trasferitosi da poco a Milano per lavorare in una compagnia di assicurazioni. Egli è tuttavia riottoso all'efficientismo meneghino, cui contrappone la propria visione di vita, lontana dalle logiche e dalle lusinghe del profitto.
«Io non sono uno che possa sopportare facilmente l'idea di farmi schiacciare dal capitalismo lombardo.»
Egli è, nelle parole e nei fatti, un anarchico individualista, animato da un indomito spirito di ribellione che, tuttavia, non poggia propriamente su rivendicazioni sociali o di classe. È un oppositore del sistema industriale e capitalistico, nemico giurato della triade "produci-consuma-crepa", per dirla con le parole di una canzone dei CCCP. Conserti è un antagonista della logica del consumismo, prima ancora che la parola entrasse nel lessico comune. E così, da nuovo arrivato nell'ufficetto periferico della grande compagnia di assicurazioni, in breve diventa il più amato, invidiato e al contempo temuto dagli inetti colleghi, grazie alla sua capacità di imporsi persino sui capi, all'apparenza senza alcuna difficoltà. Meridionali come lui, i colleghi sono invece i perfetti ingranaggi del sistema, da cui si sono fatti abbindolare.
«All'inverso s'erano lasciati schiacciare, senza lamentarsi, ma solo consolandosi allorché scoprivano che un meridionale era giunto ad un posto di comando: l'intelligenza del sud, dicevano allora, la spunta sempre; e si confortavano pensando che essi non erano completamente naufragati e potevano sempre salvarsi.»
Lo strano Conserti è per i colleghi, al contempo, esempio e condanna: esempio per ciò che loro avrebbero voluto essere, condanna per quanto avevano ripudiato, ovvero la placida e indolente vita delle campagne meridionali, legata ai cicli sempre uguali delle stagioni, ai ritmi della natura e alle tradizioni degli avi. A Milano, invece, il quotidiano è arido e frenetico, comandato dalla logica del profitto e dal credo imperativo del capitalismo. La contrapposizione nord-sud, tema che sarà ripreso in altri lavori del napoletano Bernari, è in questo romanzo appena accennata, sebbene sia funzionale a definire i contorni della storia. Negli anni Trenta forse il divario era meno accentuato rispetto a quanto sarebbe accaduto con il boom economico, eppure Bernari ha anticipato una tematica che sarebbe stata trattata ampiamente da altri scrittori meridionali (e meridionalisti), praticamente fino ai giorni nostri; mi viene in mente, da ultimo, Dante Maffia.
La ribellione di Conserti parte dalle piccole cose, come il prolungare le pause caffè, per aspirare infine a un obiettivo più alto: sabotare e sovvertire il sistema. La decisione di colpire il simbolo di quel potere, impersonato dalla ieratica figura del Direttore Generale, matura nell'animo del protagonista parallelamente all'acquisizione dell'orrida consapevolezza di essere egli stesso funzionale alla preservazione di quel sistema che aborrisce. La soluzione per liberarsi è una soltanto: prendere una pistola e ammazzarlo.
«Noi siamo i suoi agenti, come per i credenti i preti sono gli agenti di Dio sulla terra. Vivendo noi non misuriamo interamente la sua potenza. Tuttavia la difendiamo, propagandiamo il suo verbo, inconsapevolmente. Siamo la sua polizia, i suoi carabinieri. Come i poliziotti difendono il governo automaticamente, anche se il governo non dice loro: difendimi, arresta quello lì che mi dà fastidio; così noi difendiamo lui, questo padrone, senza conoscerlo, e senza che egli ci dica: difendimi! Lui è tutto.»
L'ombra del suicidio è un romanzo anomalo nel contesto della letteratura italiana del primo Novecento, sebbene al contempo non del tutto eccentrico. Si inserisce infatti nel fecondo calderone della cosiddetta "letteratura industriale", eppure colpisce per la fermezza, oserei dire quasi la violenza, di alcuni suoi passaggi, incredibile soprattutto se si pensa che fu scritto (ma non pubblicato) nel 1936, quando un attacco così frontale ai gangli del potere politico e industriale poteva costare il confino, nella migliore delle ipotesi. Di certo non è anacronistico; tuttavia, anche a volerlo spogliare di alcuni contenuti non più di stretta attualità, resta un romanzo valido e interessante che racconta l'ascesa e il naufragio morale e materiale di un aspirante rivoluzionario, un no-global ante litteram.
Prima e finora unica edizione, anno 1993

17 aprile 2025

Uno sguardo "fantastico" sulla guerra

Soldato ignoto, ultima prova dietro la macchina da presa per Marcello Aliprandi (1934-1997), può essere definito un gioiello nascosto del nostro cinema. Nel 1995 fu persino premiato al Festival Internazionale del Cinema di Salerno, eppure oggi è una pellicola quasi dimenticata. Buona la prova di un cast che annoverava ottimi interpreti, tra cui Martin Balsam, Giovanni Guidelli e un bravissimo Angelo Orlando.
La trama ci riporta agli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. Sono i giorni confusi che seguono l'armistizio dell'otto settembre del 1943: il Regio Esercito è sbandato e l'Italia diventa improvvisamente teatro di una feroce guerra che vede contrapposti gli Alleati alle truppe nazifasciste. La vicenda si svolge in un luogo imprecisato del Meridione, sebbene sia possibile collocarlo nella provincia di Salerno, in virtù di due riferimenti geografici menzionati dai protagonisti, Pontecagnano e Capaccio. Nel bel mezzo di una battaglia si forma una nebbia così fitta che alcuni soldati degli opposti schieramenti si smarriscono e sono infine costretti a rifugiarsi in un'antica magione in stile neoclassico. Il palazzo è vuoto, eppure vi sono tracce di vita recente, come il fuoco che arde nei caminetti. Qui e lì sono inoltre ammonticchiati elmetti, divise e armi risalenti a diverse epoche storiche.
Alla spicciolata arrivano tutti: due ufficiali e un soldato inglesi, un soldato italiano, uno tedesco, un disertore americano, una crocerossina e un ambiguo corrispondente di guerra italiano. Il palazzo è come una prigione dorata, perché non è possibile uscirne a causa della fittissima nebbia, ma al tempo stesso è riscaldato e dotato di ogni comfort. Che ci sia qualcosa di anomalo è evidente a tutti, ma nessuno è davvero preparato a scoprire la verità, ovvero di essere rimasti uccisi nel corso della battaglia. Essi sono tutti morti e il palazzo è una sorta di luogo di transito dove vanno le anime dei defunti di guerra, forse prima di raggiungere l'aldilà.
Soldato ignoto non è dunque un film di guerra, almeno non nel senso classico. Si tratta infatti di un lungometraggio che potremmo tranquillamente catalogare nel genere fantastico, sia pure entro una cornice realistica. Anzi, a pensarci bene, cosa c'è di più reale e concreto di una guerra? La guerra è proprio la tragedia collettiva in cui sono più forti le esigenze del reale; per questo l'opera di Aliprandi è particolarmente originale, per aver commisto elementi fantastici a una vicenda fortemente realistica. É un'opera di denuncia che porta avanti un chiaro messaggio antimilitarista, avvalendosi tuttavia di un espediente fantastico.
Sebbene sia stato girato tutto in interni, il film scorre senza annoiare mai e senza tempi morti. I dialoghi tra i personaggi prevalgono rispetto all'azione; la stessa guerra è più evocata dai rumori che provengono dall'esterno, quali spari e boati, che realmente vissuta dai protagonisti, se non attraverso i ricordi. Nella condizione di convivenza forzata in cui si vengono a trovare, essi raccontano scampoli della propria esistenza, consci del fatto che presto dimenticheranno tutto, una volta chiamati a lasciare quel limbo che è il palazzo. E proprio nel racconto si scoprono diversi eppure uguali, perché al di là della bandiera e della divisa esistono valori universali che accomunano tutti gli uomini. Lo stesso concetto del "nemico" svanisce, al punto che persino il riottoso tedesco diventa parte del gruppo e alle regole del gruppo si adegua.
In questi tempi bui si è tornato a parlare di guerra in maniera spregiudicata, come purtroppo dimostrano non solo le tragedie dell'Ucraina e della Palestina, ma anche le voci imperiose dei potenti della Terra che incitano all'odio tra i popoli e al riarmo. Guardare un film come Soldato ignoto, a maggior ragione in quanto sconosciuto ai più, diventa allora quasi un atto politico, una forma di ribellione ideologica a chi, colpevolmente immemore degli orrori del passato, vorrebbe ancora farci credere che la guerra sia una soluzione ai problemi del mondo e non un'immane tragedia collettiva.
Una suggestiva foto di scena (tratta da www.angeloorlando.com)

3 aprile 2025

"L'assenza dell'assenzio" di Andrea G. Pinketts: il vuoto come crisi

Ogni tanto mi capita di riprendere la saga di Lazzaro Santandrea lì dove l'avevo interrotta. A dire la verità, almeno all'inizio non ho seguito il corretto ordine cronologico, dato che il romanzo d'esordio l'ho letto per terzo. Con Il conto dell'ultima cena (1998) e con L'assenza dell'assenzio (1999), rispettivamente il quarto e il quinto della saga, ho ripreso il giusto ritmo.
Ne L'assenza dell'assenzio ritroviamo un Lazzaro trentacinquenne alle prese con una profonda crisi esistenziale, coincidente con la fine della (prima) giovinezza. Se infatti il nostro eroe è una sorta di eterno Peter Pan, non può ignorare che il mondo intorno a lui è preda di frenetici e irreversibili cambiamenti. Il primo è la morte dell'inossidabile nonna, vecchia quercia trentina tutta d'un pezzo che era presente sin dal romanzo d'esordio. Il secondo cambiamento, una vera e propria rivoluzione, è dato dall'assenza degli amici di sempre: l'ineffabile Duilio Pogliaghi, detto Pogo il Dritto, l'attore fallito Antonello Caroli, il corpulento Carne e altri facenti parte della sua corte dei miracoli. Pogo ha avuto un figlio dall'ex compagna e adesso ne ha trovata un'altra con lo stesso nome, Cristina. Carne è sparito definitivamente dai radar. Antonello Caroli ha raccontato di essersi trasferito a Cinecittà, sebbene viva quasi da recluso nell'appartamento della periferia milanese condiviso con la mamma. Lazzaro si ritrova così da solo ad affrontare una profonda crisi, la crisi dell'assenza. Assenza di senso, assenza di obiettivi, assenza di prospettive concrete, assenza di voglia di essere come gli altri vorrebbero che noi fossimo; perché lui, in fondo, è un Peter Pan anarchico.
«La mia vita era un mistero. Lazzaro Santandrea, ex modello, ex giornalista, ex istruttore di kendo, ex possidente, ex conferenziere. Una sfilza di ex fidanzate a fare compagnia a tutte le ex persone che ero stato.»
Nel mezzo del cammin di sua vita il nostro eroe si reinventa cacciatore di dote e va alla ricerca di una donna ricca da sposare e da cui farsi mantenere. La trova in Orsetta Orsoni, figlia del facoltoso Ursus Orsoni. L'ingresso in casa Orsoni, come spesso accade nella vita di Lazzaro, è l'evento che dà il via a una scia di morti e sparizioni (torna il tema dell'assenza) in cui egli dovrà ancora una volta assumere le indesiderate vesti del detective. E quando il gioco si farà duro, ritorneranno anche i cari amici di un tempo, Pogo e Antonello, pronti a dare una mano.
Leggendo Pinketts a volte ci si dimentica che egli è stato un autore di gialli/noir, perché nei suoi libri il delitto non è il motore dell'azione, ma il pretesto per dare vita a storie strampalate in cui lo scrittore milanese riversava tutto il suo mondo. È noto che Lazzaro sia un alter ego dell'autore, così come è noto che l'ambiente delle periferie e dei bar milanesi in cui egli si muove non sia altro che l'habitat naturale in cui Pinketts è nato, cresciuto e ha vissuto.
L'assenza dell'assenzio, come tutti i romanzi della saga, è un inno commovente a un'adolescenza mai finita e artificiosamente prolungata, la giovinezza intesa come condizione esistenziale dell'animo, prima ancora che fisica o anagrafica. Lazzaro ha trentacinque anni, Antonello più di quaranta e Pogo una via di mezzo, eppure nessuno dei tre è davvero un adulto. Ho parlato di un inno "commovente" alla giovinezza perché, leggendo Pinketts, ho sempre avuto l'impressione che egli abbia cercato di fermare quell'attimo fuggevole che è l'età verde, imprimendola sulla pagina attraverso la scrittura. Si ride molto leggendo le sue opere, eppure al tempo stesso si riflette sugli aspetti più amari della nostra esistenza. Il tutto attraverso uno stile personalissimo, fatto di continui cambi di registro e giochi di parole – non tutti riusciti, a dire la verità –, in cui dialoghi spesso esilaranti si alternano a pensieri di sicuro valore letterario.
Ho scritto questa recensione di getto, probabilmente senza neppure accennare a quanto avrei voluto dire, facendomi guidare da un coacervo di impressioni scaturite dalla lettura. In conclusione, posso solo aggiungere che L'assenza dell'assenzio è un viaggio nelle paludi più torbide dell'animo umano, cui Pinketts però contrappone valori positivi: l'amicizia, la famiglia, la coerenza, l'essere se stessi anche a costo di tradire le aspettative che gli altri illegittimamente ripongono su di noi.
La recente ristampa Harper Collins

21 marzo 2025

E cadrà una nevicata di stelle: gli ultimi versi di Sergio Corazzini

Niente è più stucchevole di certi epitaffi: lunghi, verbosi, patetici, fanno quasi venire in odio il morto. Meglio, molto meglio, la sintesi. C'è quella estrema dei King Crimson: «"confusion" will be my epitaph», cantava semplicemente Greg Lake, racchiudendo in una sola parola il sunto di una vita. Oppure c'è quella meno estrema ma altrettanto potente di John Keats, che sulla sua tomba al Cimitero Acattolico di Roma fece scrivere «here lies one whose name was writ in water». E infine c'è questo, un epitaffio che coglie con poche secche parole l'essenza di una vita breve ma intensa.
«Per chi ricorda. Sergio Corazzini, poeta. A vent'anni, il 17 giugno 1907»
Chi ha ordinato l'epitaffio avrebbe potuto sdilinquirsi in lunghi incensamenti, sperticarsi in lodi esagerate su quello che è stato indubbiamente uno dei più formidabili e precoci talenti poetici del nostro primo Novecento. E invece, non facendolo, ha dimostrato di volere davvero bene al povero Sergio. Già l'incipit è un colpo al cuore, in perfetto stile crepuscolare: "per chi ricorda". I poeti crepuscolari non anelavano alla gloria o alla riconoscenza universale; la loro era la poesia dell'effimero, delle cose che rimangono a impolverarsi nelle case chiuse, finché non se ne perde perfino il ricordo. Al tempo stesso l'incipit è un complice ammiccamento ai pochi che effettivamente lo ricordano, membri di un club ristretto ma eletto. Il resto è tutto quello che rimaneva da dire: un poeta morto a vent'anni, il 17 giugno 1907. Corazzini nacque in una famiglia agiata ma, a causa di alcune errate speculazioni paterne, si ritrovò presto in miseria. Iniziò a lavorare come impiegato in una compagnia di assicurazioni, senza poter terminare gli studi; contemporaneamente partecipò alla vita culturale romana e collaborò con riviste e periodici inviando poesie. Si spense ad appena vent'anni, a causa della tubercolosi.
Per quanto la sua breve esistenza incarni al meglio certi cliché del poeta, Corazzini non si definiva tale. «Perché tu mi dici: poeta?», scriveva in una delle sue liriche più celebri. Eppure, per comprendere quanto Sergio fosse un grande poeta, non serve conoscere la sua opera omnia, né addentrarsi in saggi letterari più o meno complessi. Basta invero leggere con attenzione la sua ultima poesia, La morte di Tantalo, scritta pochi mesi (o forse giorni) prima di morire, pubblicata postuma su Vita letteraria del 28 giugno 1907. È indubbiamente la sua opera più matura, dolorosamente coincidente con un testamento spirituale.
La scena si apre su un giardino, un hortus conclusus di tradizione bucolica dove il poeta è in compagnia di una donna. I due siedono sul bordo di una fontana che abbellisce una vigna dorata, non sappiamo se per il colore dei grappoli o per la luce del giorno morente. La ragazza piange e le sue palpebre sono gonfie di lacrime, simili alle vele di una nave sferzate da una leggera brezza. Anche il poeta al suo fianco condivide lo stesso dolore, eppure non sa dargli un nome. La loro non è sofferenza d'amore, né carnale o di malinconia; semplicemente si sentono morire ogni giorno che passa senza riuscire a rinvenire la causa del male.
Arriva la notte e la vigna d'oro scompare sotto la coltre di un'oscurità così densa e opprimente che, volgendo gli occhi al cielo, appare «una nevicata di stelle». La nevicata di stelle è un'immagine potentissima, forse l'apice della lirica e dell'intera produzione di Corazzini. È qui che il giovane romano si dimostra poeta, nell'aver saputo costruire una grandiosa metafora con due semplici parole della vita quotidiana, un articolo e una preposizione.
Prima di addormentarsi sotto il cielo stellato, i due assaporano i grappoli della vigna d'oro e bevono l'acqua dolce della fontana. Così facendo, contravvengono alle leggi divine che non permettono di mangiare quei frutti e di abbeverarsi alla fontana. Ed ecco che arriva il mattino e i due si ritrovano ancora seduti sull'orlo della fontana, «nella vigna non più d'oro». A questo punto gli oscuri simbolismi di cui il testo è ricco diventano chiari: il giardino è una sorta di luogo di transito, dove le "anime" (la parola ricorre nel testo) devono stazionare prima della vita eterna, negata tuttavia a chi contravviene alle severe disposizioni divine. Il poeta e la ragazza, violando le regole del giardino, si sono negati la morte, vista come una nuova e più piena rinascita, per cui la loro condanna sarà quella di vivere per sempre, errando nel mondo senza una meta e senza poter estinguere quel fuoco di melanconia che solo in un altrove si sarebbe finalmente spento.
«E aggiungi che non morremo più
e che andremo per la vita
errando per sempre.»
Il supplizio del poeta è simile a quello di Tantalo, condannato per l'eternità ad avere fame e sete implacabili, pur essendo immerso in una pozza d'acqua dolce e avendo a portata di mano un albero colmo di frutti. A causa dei suoi misfatti gli dèi hanno ordito una crudele condanna: quando prova a bere, il lago si prosciuga, quando tenta di afferrare i frutti, questi si allontanano. La differenza tra Tantalo e il poeta è tuttavia abissale, perché mentre il primo ha trasgredito le leggi degli dèi, il secondo non ha colpe. L'esistenza di Corazzini è segnata dalla tubercolosi, una condanna senza processo che in quegli anni mieteva tante giovani vittime. Tuttavia egli non crede che il destino infausto sia casuale. Vuole trovare un senso a questa esistenza colma di un dolore che poeticamente sente di aver meritato; ecco che il soggiorno nel giardino dalla vigna d'oro diventa metafora della colpa. Una colpa scontata vivendo ed errando per sempre.
La morte di Tantalo è un testo talmente ricco e complesso da non credersi che sia stato scritto da un ventenne che vedeva nella morte, quasi chiamata per nome, un sollievo alla propria esistenza minata dalla sofferenza e dalla malattia. Una morte invero intesa come rinascita, anche nell'ottica del pensiero cristiano. Aggiungo che gli ultimi versi sono una profezia, perché Sergio Corazzini non è mai davvero morto, se a distanza di oltre cent'anni la sua voce giunge ancora forte e chiara a chi la vuol sentire.
Un angolo di Villa Celimontana, Roma

8 marzo 2025

"La scala a chiocciola": l'incubo vestito di decoro

Gialli e thriller non sono tra i miei generi preferiti, né in letteratura né al cinema. Ciò non toglie che ogni tanto li apprezzi, sebbene non me ne intenda particolarmente. Al più mi piacciono le ambientazioni, soprattutto quelle cittadine plumbee e notturne di certi noir, oppure le desolazioni delle immense campagne dove per chilometri non si incontra anima viva. In parole povere, più che scoprire chi è l'assassino, mi intriga il contesto in cui avvengono i fatti, spesso più interessante della trama. L'avita magione è uno dei luoghi classici in cui vengono ambientate queste storie. Una casa antica, isolata, decadente, polverosa e abitata da oscure presenze è la scenografia ideale di questo tipo di narrazioni; si pensi a titolo di esempio alla Casa Usher del celebre racconto di Edgar Allan Poe.
È dunque per questo interesse, sia pur mediato, che ho visto La scala a chiocciola, film statunitense del 1946 per la regia di Robert Siodmak, considerato uno dei capostipiti del thriller cinematografico. Ammetto la mia ignoranza, in quanto non conoscevo il lungometraggio; l'ho scoperto leggendo uno degli ultimi numeri di Martin Mystère, in cui se ne consigliava appunto la visione.
La trama è semplice ma d'impatto, considerando soprattutto l'anno di produzione. Un piccolo centro della provincia americana da qualche tempo sta vivendo un incubo: c'è un assassino seriale che uccide solo donne che presentano una qualche forma di disabilità. La giovane Elena, muta a seguito di un terribile shock, sembra essere la prossima vittima predestinata. Sola al mondo e fragile per l'incapacità di parlare e chiedere aiuto, viene caldamente invitata a rimanere chiusa nella casa dove lavora come domestica, fin quando l'assassino non verrà arrestato. Purtroppo, però, è proprio in quella casa signorile che vive il mostro.
Questa a grandi linee la storia, senza voler svelare troppi particolari. Nonostante siano passati quasi ottant'anni dalla sua uscita, il film mantiene ancora oggi un suo fascino e non solo per ragioni "archeologiche". Vero è che può essere considerato l'archetipo di un genere e ciò solo basterebbe per giustificarne la popolarità fino ai giorni nostri. Si può infatti affermare che ne La scala a chiocciola compaia forse per la prima volta quella figura dell'assassino seriale che tanta fortuna cinematografica avrà nei decenni successivi, soprattutto nelle produzioni statunitensi. Eppure, a mio avviso, il punto di forza del film non è questo, non sta nella capacità di condensare elementi classici del brivido e proiettarli nel futuro. Ciò è sicuramente vero, tuttavia non sufficiente. Mi sono dunque chiesto come faccia un film così vecchio a tenere incollato lo spettatore alla poltrona, senza una sola goccia di sangue e senza scene particolarmente crude o impressionanti.
Ciò che lo rende un capolavoro è la perizia tecnica del regista negli straordinari giochi di luci e ombre che creano un clima continuo di strisciante tensione. Si considerino le scene ambientate nella cantina: di fatto non succede nulla o quasi, eppure un brivido corre lungo la schiena dello spettatore, convinto che dietro ogni pilastro o in ogni angolo oscuro si nasconda un pericolo mortale. Il grandioso bianco e nero fa il resto, dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno, di essere l'unica perfetta forma di rappresentazione visiva per questo genere di opere.
Tornando a quanto detto all'inizio, La scala a chiocciola utilizza il grande topos dell'antica magione, non più mera scenografia ma vero e proprio personaggio. La labirintica casa Warren è in questo senso perfetta: in stile vittoriano, piena zeppa di ogni sorta di arredi, quadri e chincaglierie, è composta da ampi saloni, stanze più piccole, anditi oscuri, lunghi corridoi e spazi più modesti dedicati alla servitù. Il suo cuore è però rappresentato dalla scala a chiocciola che parte dal piano nobile e conduce agli scantinati. È proprio su questa scala che si consuma la doppia tragedia conclusiva, preambolo al lieto fine, forse non troppo originale ma coerente coi gusti dell'epoca. Il senso di piacere visivo delle prime scene si trasforma gradualmente in un'opprimente sensazione di claustrofobia; solo alla fine arriviamo a comprendere che è la casa stessa il cuore del male, con i suoi tappeti, arazzi, arredi, quadri, caminetti, soprammobili e poltrone, utili soltanto a dare all'incubo una veste di decoro.
Per chi fosse interessato, il film è in libera visione su YouTube. Vale la pena vederlo, se non altro per ammirare la "grazia innaturale" della bella Dorothy McGuire (per dirla alla Battiato) e lo straordinario pathos di Ethel Barrymore nel ruolo della vecchia Lady Warren.
Elena (Dorothy McGuire) sulla celebre scala

25 febbraio 2025

"Mighty Joe Moon": il folk contemporaneo dei Grant Lee Buffalo

Il principale merito delle grandi band è la capacità di creare un suono riconoscibile già al primo ascolto. Mi vengono in mente gli Smiths, i Depeche Mode e gli Smashing Pumpkins, nonché gruppi meno noti ma altrettanto originali come i Wedding Present, il cui muro chitarristico è un vero e proprio marchio di fabbrica. Grant Lee Buffalo è un nome che dice poco al grande pubblico, eppure i losangelini possono e devono essere inseriti in questa cerchia ristretta.
La loro pazza idea fu quella di proporre una personale rivisitazione del folk-rock che ha in Neil Young uno dei più grandi interpreti. Idea pazza perché la loro storia si esaurì in una manciata di anni, tra il 1991 e il 1999, quando pubblico e mercato erano orientati su altre proposte. Erano gli anni del brit-pop, del grunge, dello shoegaze e di quel calderone ribollente che venne genericamente chiamato rock alternativo e poi indie. I tre di Los Angeles, invece, pur inserendosi egregiamente nel contesto, tanto da partecipare anche a programmi di MTV, puntavano lo sguardo al passato, alla grande tradizione americana del country e del folk. Il loro stile non era tuttavia semplicemente derivativo, in quanto il suono della tradizione era filtrato da una sensibilità contemporanea che lo rendeva facilmente fruibile e, soprattutto, attuale e non anacronistico. Limitarsi a citare un genere è dunque fuorviante, perché i Grant Lee Buffalo hanno avuto la capacità di prendere linfa dalle radici della tradizione senza diventare emuli dei grandi del passato.
Mighty Joe Moon (1994) è forse l'apice della loro carriera, oltre che l'emblema di tale proposta musicale. Per comprenderlo basta dare un'occhiata alla ricchissima strumentazione, che comprende chitarre elettriche, banjo, basso, armonica, organo elettrico, piano, marimba, mandolino e batteria. Un mix di strumenti della tradizione nord e sudamericana, oltre a quelli tipici delle rockband. Senza dimenticare la splendida voce di Grant Lee Phillips, una delle più intense di quegli anni, capace di spaziare dal falsetto (Mockingbirds) ai toni più profondi ed evocativi (Sing along, Honey don't think).
Quando Grant Lee Phillips, Joey Peters e Paul Kimble (nelle vesti anche di produttore) entrarono al Brilliant Studio di San Francisco, dovevano avere le idee ben chiare. Altrimenti non si spiegherebbe la compiutezza di questo album, il secondo della loro breve discografia. Non ci sono punti morti, né riempitivi; persino il breve intermezzo di Last days of Tecumseh, un minuto o poco più, ha il suo perché. Anzi, è l'unica traccia smaccatamente country; eppure il loro tocco originale la fa piacere persino a uno come me che non ha mai sopportato il genere.
Il disco inizia alla grande con Lone star song, epopea americana in poco meno di cinque minuti, un blues sanguigno ed elettrico che graffia le orecchie. Si rifiata con l'acustica Mockingbirds, a mio avviso il pezzo in cui emergono al meglio le doti vocali di Phillips. Significativa anche Sing along, che vive di due momenti ben distinti: l'esplosione elettrica iniziale e il finale sussurrato che si chiude in delicati arpeggi di chitarra. In generale nel disco si nota una grande capacità di dosare ritmi e suoni diversi, sicché l'impressione finale è quella di un deciso equilibrio. Si prenda un pezzone come A demon called deception, dove non c'è un elemento che non sia esattamente al suo posto: la batteria incalzante, la musicalità del testo, la voce di Phillips ora imperiosa ora struggente, le sferzate di chitarra elettrica e le linee decise del basso. In generale non c'è un solo brano che possa dirsi non riuscito, tanto che il finale di Rock of ages è sorprendente per chi, arrivato alla tredicesima traccia, pensi di aver già sentito il meglio. La vera perla è secondo me Honey don't think, anche questa strategicamente collocata in coda; è semplicemente una delle più ispirate e struggenti canzoni d'amore degli anni Novanta.
Mighty Joe Moon è un gran bel disco, si potrebbe persino azzardare definendolo un capolavoro, sia pure sottovoce. Tredici tracce che avvolgono l'ascoltatore in un turbine di suoni caldi e pastosi, in cui si alternano passaggi elettrici e acustici, con testi visionari recitati da una voce, quella di Grant Lee Phillips, capace in certi momenti di brillare di una grazia quasi sovrumana. Indipendentemente da quale sia il vostro genere preferito, se amate la musica comprate questo disco.
La copertina e, in basso, foto tratte dal libretto interno

12 febbraio 2025

"Il paese delle meraviglie" di Giuseppe Culicchia: la generazione segnata dall'odio

A rileggere un libro che ha segnato una fase della nostra vita si corre un rischio, ossia quello di smarrire la magia della prima lettura. Sarà capitato a tutti di non riuscire più a ritrovare tra le pagine di un libro amato i segni di quel vecchio innamoramento. Forse per questo non ho mai riletto Il giovane Holden, per la paura (sia pure infondata) di rimanerne deluso. Ho fatto un'eccezione per Il paese delle meraviglie di Culicchia, che un'amica mi prestò nel lontano 2004, fresco di stampa. All'epoca mi fulminò, fissato com'ero per il punk e certe controculture ribelli. Un romanzo che mi segnò più profondamente di quanto abbia mai creduto, al punto che, rileggendolo, sono rimasto assai sorpreso di ricordarlo meglio di quanto mi aspettassi. Pur con le dovute differenze, le buone impressioni sono rimaste. Se vent'anni fa lo elessi a libro cult, un vero e proprio manifesto, oggi lo considero un nostalgico ricordo di un'epoca spensierata che non c'è più.
Sorprendentemente, inoltre, la seconda lettura mi ha condotto a riflessioni che vent'anni fa non erano possibili. Se infatti era intuibile che ci fossero degli spunti autobiografici, mai avrei potuto immaginare che la figura di Alice, uno dei personaggi del romanzo, fosse modellata su quella di Walter, cugino dell'autore e protagonista di una tragica vicenda che Culicchia ha trovato la forza di raccontare solo di recente. Senza svelare troppo della trama, chi volesse approfondire questo spunto autobiografico, rinvenendo eventualmente le mie stesse impressioni, può leggere il recente Il tempo di vivere con te.
In parole semplici, Il paese delle meraviglie è la storia di un'amicizia, profonda e sincera come può nascere solo in adolescenza, quella tra l'io narrante Attilio (detto Attila) e Francesco Zazzi (detto Franz). Quest'ultimo è un personaggio che difficilmente può essere dimenticato: quindici anni, sguardo azzurro pazzo, jeans fulminati dalla candeggina, chiodo e t-shirt con slogan scritti a biro risalenti al ventennio fascista. Franz infatti si dichiara neofascista, eppure il suo atteggiamento da immarcescibile poser ce lo fa amare sin dalle prime pagine. Coi suoi eccessi e la sua coerenza, Franz è l'amico che tutti in adolescenza avremmo voluto avere: folle, energico, fedele ai suoi ideali (per quanto discutibili), menefreghista, sciolto dai vincoli della buona società, malinconicamente anarchico nel profondo.
Le avventure di Attila e Franz nel corso di un intero anno scolastico, assieme a un incredibile numero di comprimari, sono il cuore pulsante della vicenda. Eppure Il paese delle meraviglie è anche qualcosa di più, perché attraverso la storia dei due amici Culicchia dipinge un impietoso ritratto dell'Italia alla fine degli Anni settanta, schiacciata tra il sogno del benessere e l'incubo del terrorismo e degli opposti estremismi. Il romanzo è infatti ambientato nel 1977 e sebbene i due amici vivano in un piccolo comune della provincia piemontese, gli echi del mondo si fanno sentire forte e chiaro, con la lotta politica, il punk, i Ramones e i Sex Pistols, la droga, la lotta senza tempo tra progressisti e conservatori. Il paese del titolo è l'Italia profondamente provinciale e bigotta in cui i due protagonisti hanno la ventura di vivere; una nazione incapace di spiccare veramente il volo, dilaniata com'è dalle opposte ideologie, siano esse politiche, sociali o religiose. In questo clima si consuma l'adolescenza sofferta di Franz e Attila, il primo troppo eccentrico per poter sopravvivere nella buona società, il secondo costretto a crescere troppo presto e a mettere i sogni nel cassetto. Non a caso il libro si conclude con la frase «io odio tutti», che non ha tuttavia l'ironico significato di un certo anarchismo punk, ma va intesa proprio in senso letterale. Arduo persino parlare di un romanzo di formazione, se così stanno le cose, in quanto il punto di approdo non è la crescita, ma un doloroso e invincibile disincanto.
Il libro di Culicchia ha segnato molti della mia generazione e di quella immediatamente precedente, come ho avuto modo di appurare confrontandomi con alcuni amici. E chiunque l'abbia letto, nessuno escluso, a distanza di anni ancora ricorda il pugno nello stomaco delle pagine finali.

31 gennaio 2025

"Fuga senza fine" di Joseph Roth: tra reduci e rovine

Ci sono opere che possono lasciare il lettore indifferente, oppure sconvolgerlo, a seconda della fase di vita che sta attraversando. Fuga senza fine è una di queste. La storia di Franz Tunda potrebbe infatti apparire come una vicenda a noi aliena, da leggere per semplice diletto e nulla più, "una storia vera" come tiene a precisare l'autore, ma al tempo stesso appartenente a un'epoca lontana. Se invece si astrae la vicenda dal contesto storico e ci si concentra sulla figura del protagonista, allora le cose cambiano. Se poi il lettore si trova in una fase della vita in cui le domande non sembrano trovare risposta, se si sente irrisolto e senza speranza di redenzione, allora nel libro potrà trovare una parte di sé e rimanerne sconvolto. Ciò perché Fuga senza fine è la cronaca di un dramma, quello di chi un giorno si scopre smarrito, di chi non ha più passato e non avrà mai un futuro, di chi si sente schiacciato dal peso di un presente che non gli appartiene.
Franz Tunda è un ex ufficiale dell'esercito austroungarico, fatto prigioniero dai russi durante la Prima guerra mondiale e fuggito dal campo di prigionia. Per anni, fino al 1919, si nasconde in una remota isba siberiana, grazie all'aiuto di un uomo che lo tratta come un fratello. La patria è lontana, l'Impero asburgico non esiste più, nulla egli sa del fratello e soprattutto della fidanzata Irene, che pure secondo il buoncostume borghese ha atteso per anni che egli ritornasse dalla prigionia. Quando Franz apprende che la guerra è finita, il mondo che conosceva è dissolto. Egli è un esule, un relitto storico, un uomo ancora giovane eppure appartenente al passato, un reduce costretto a vagare senza meta per l'Europa nella speranza di incontrare qualcosa che possa restituirgli l'identità perduta, forse proprio grazie alla vecchia fidanzata che egli non ha mai dimenticato.
Il viaggio intrapreso porta Tunda ad attraversare un'Europa in profondo cambiamento: dalla Russia rivoluzionaria passando per la Vienna depressa del post-Impero, dalla fragile Repubblica di Weimar fino ad arrivare in una Parigi decadente che ancora vive dei fasti del suo passato. C'è dunque una segreta corrispondenza tra uomini e luoghi, o sarebbe meglio dire tra uomini ed epoca storica. La crisi non è infatti solo individuale: è una crisi di valori e identità che riguarda l'intero continente. Di uomini come Tunda ce ne sono centinaia di migliaia, tra ex soldati dei contrapposti eserciti, intellettuali frustrati e borghesi impoveriti dal conflitto.
Ovviamente nulla da dire sullo stile di Roth (1894-1939), raffinato, tagliente ed essenziale come è proprio dei grandi scrittori. Alcuni passaggi tuttavia sembrano quasi frettolosi; il romanzo infatti copre poco più di centocinquanta pagine, nel corso delle quali il protagonista gira mezza Europa. Giocoforza ci sono parti, su tutte il ritorno a Vienna o il soggiorno a Baku, in cui alcuni particolari sono dati per scontati e poco approfonditi, aspetto che rende a tratti poco comprensibile l'evolversi della vicenda. Se poi non è così, ma si tratta di una mia erronea impressione, chiedo venia.
C'è chi considera Fuga senza fine uno dei più importanti romanzi del Novecento, assieme a La cripta dei cappuccini del medesimo autore. A mio modesto avviso si tratta di un'affermazione un po' pretenziosa. Certo è invece che si tratta di un libro capace come pochi di captare lo spirito di un'epoca e di un'umanità persa e sofferta. Franz Tunda, in questo senso, è uno dei più emblematici personaggi del Novecento letterario, ben più solido della storia che Roth gli ha fatto vivere.

17 gennaio 2025

"Una scrittura femminile azzurro pallido" di Franz Werfel: una catastrofe umana

Mentre nel romanzo Nella casa della gioia Franz Werfel aveva descritto una società in crisi e un mondo in sfacelo, in questo libro egli si è fatto cronista di un disordine tutto individuale. Leonida, alto funzionario del Ministero dell'istruzione austriaco negli anni immediatamente precedenti l'Anschluss, conduce una vita altisonante come il suo nome. Proviene da una famiglia modesta e grazie a un insperato colpo di fortuna ha sposato Amelie Paradini, una delle donne più ricche del Paese. Ciò gli consente di vivere decisamente al di sopra di quanto gli permetterebbe il suo stipendio da impiegato pubblico. Un'esistenza all'apparenza priva di macchie che è messa in discussione il giorno in cui gli viene recapitata una lettera vergata con scrittura femminile azzurro pallido, da cui il titolo del romanzo. Leonida riconosce subito la mittente, prima ancora di aprire la busta: la missiva è stata scritta da una sua vecchia amante. Sono i fantasmi del passato che si fanno inaspettatamente avanti, rischiando di compromettere l'esistenza agiata del funzionario statale.
Il protagonista è un eroe negativo, in quanto presenta tutti i vizi di certi esponenti della classe dirigente: è dozzinale, fedifrago, calcolatore, cinico, schiavo del dio denaro. Egli è l'incarnazione del parvenu, un uomo tutto sommato mediocre che ha raggiunto la ricchezza e una posizione sociale invidiabile grazie a un matrimonio fortunato. Eppure anche a lui viene offerta un'opportunità di redenzione; proprio quando la sua vita sembra inesorabilmente incardinata nei binari dell'agiatezza e del conformismo, l'arrivo della missiva lo pone di fronte a un bivio. Disinteressarsene distruggendola, come già aveva fatto nel passato, oppure aprirla e rispondere all'esortazione di aiuto ivi contenuta, rischiando tutto in un lancio di dadi. Nessuno può aiutarlo a trovare una soluzione, perché certi rovelli bisogna affrontarli da soli. Tuttavia Leonida non sa cogliere l'estrema opportunità celata tra le pieghe della lettera. E così l'ultima speranza di redenzione si dissolve, lasciandolo più solo e colpevole, a ennesima conferma della sua inettitudine morale.
Franz Werfel (1890-1945) ha dimostrato con questo romanzo di essere stato uno dei più fini narratori della sua generazione, in grado come pochi di trascrivere su carta paure, ossessioni e idiosincrasie dell'uomo europeo a cavallo tra i due conflitti mondiali. Cantore poco conosciuto della finis Austriae, in realtà non aveva nulla da invidiare a grandi contemporanei come Joseph Roth o Arthur Schnitzler.
Tutto il libro ruota intorno a tre soli personaggi principali, attorniati da una manciata di comparse. Leonida è una figura che ispira antipatia sin dalle prime pagine e con l'incedere della storia la prima impressione è confermata e anzi rafforzata. La moglie Amelie è una donna insulsa, piagnucolosa, succube dei capricci del marito e incapace di slanci vitali. Poi c'è la misteriosa autrice della lettera che, nonostante appaia soltanto nelle pagine finali, lascia il segno più profondo nel ricordo del lettore, in quanto è lei il vero deus ex machina dell'azione. E infine c'è Vienna, quasi un quarto personaggio, descritta da Werfel con pochi rapidi tocchi, perché se è vero che la vicenda si svolge quasi tutta in interni, gli scorci della città che si intravedono dalle finestre bastano per costruire uno scenario di grande fascino.
Una scrittura femminile azzurro pallido è la storia di un tormento, nonché un'impietosa critica al culto tutto borghese dell'apparenza e all'ipocrisia che spesso si cela dietro i rapporti umani, soprattutto tra i membri della classe dirigente. Werfel osserva con sguardo lucido e spietato la catastrofe umana del suo protagonista, senza tuttavia assumere toni moraleggianti o paternalistici. Il narratore non giudica, lascia che sia Leonida a firmare ed eseguire la sua stessa condanna, quella di un uomo che acquisisce consapevolezza quando è ormai troppo tardi e il fuoco è morto sotto la cenere. Il libro raggiunge dunque il suo punto più alto nello struggente finale, in cui Leonida, seduto su una poltrona del teatro, cade preda di un sonno convulso e animato da fantasmi. Sono i ricordi e le opportunità del passato, tutte quelle che non ha saputo cogliere e che non torneranno più. A lui, però, uomo mediocre e incapace di un sentire poetico, non resta neppure la gozzaniana consolazione del malinconico rimpianto, il «non amo che le rose che non colsi, non amo che le cose che potevano essere e non sono state».

4 gennaio 2025

"C.S.I. È stato un tempo il mondo" di Donato Zoppo: voci dai confini della Terra

Il Consorzio Suonatori Indipendenti, più semplicemente C.S.I., è stato il portabandiera di un mondo in cambiamento. Il "secolo breve" stava finendo e con esso le grandi ideologie che avevano infiammato gli animi, il mondo a blocchi contrapposti era giunto al capolinea e anche gli artisti percepivano nuove urgenze espressive e la necessità di lasciarsi alle spalle un passato divenuto ingombrante. In Italia i CCCP, al netto delle provocazioni e dei colpi di teatro, avevano in qualche misura rappresentato perfettamente quel mondo che appariva in sfacelo all'alba dei Novanta; non a caso il loro ultimo album, Epica etica etnica pathos, era già un canto d'addio e al contempo l'apertura verso qualcosa di nuovo. I C.S.I. nacquero dalle ceneri dei CCCP, con i provvidenziali innesti di alcuni ex Litfiba; una storia destinata a lasciare una traccia profonda nella scena rock nostrana, praticamente fino ai nostri giorni. Questa anomala alleanza artistica dell'Appennino tosco-emiliano non fu pensata come un gruppo nel senso classico del termine; un consorzio per l'appunto, a voler significare un patto contadino e operaio, stretto però tra musicisti che si consideravano indipendenti, in quanto ciascuno avrebbe portato il proprio bagaglio individuale per arricchire il tutto.
C.S.I. È stato un tempo il mondo, è l'appassionante racconto di quell'esperienza irripetibile. Il libro, scritto dal giornalista musicale Danilo Zoppo ed edito nel 2024 per i tipi di Aliberti, racconta la prima parte della breve storia della band, coprendo il periodo che va dallo scioglimento dei CCCP nel 1990 fino al tour di In quiete che seguì la pubblicazione del primo lavoro in studio, Ko de mondo, passando per l'esperienza del Maciste e dei Dischi del Mulo. Pertanto, pur essendo concepito come «un resoconto collettivo a più voci del Consorzio Suonatori Indipendenti», il saggio in realtà affronta solo la prima parte della loro carriera, concentrandosi specialmente sulle vicende che precedettero e seguirono l'uscita del primo LP. Resoconto a più voci nel senso che le pagine sono arricchite dalle parole e dai ricordi dei protagonisti di quegli anni, in primis i membri della spedizione che si recò in Bretagna a concepire, suonare e registrare il disco: Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Francesco Magnelli, Gianni Maroccolo, Giorgio Canali, Ginevra Di Marco, Pino Gulli e Alessandro Gerbi. Oltre naturalmente agli interventi di altri protagonisti di quell'avventura, come tecnici, fotografi, registi e discografici.
È stato un tempo il mondo, titolo tratto da una canzone dell'album e quanto mai azzeccato, offre un interessante spaccato del mondo musicale nostrano a cavallo di due decadi decisive, un attimo prima che l'avvento del digitale distruggesse per sempre quel modo genuino di fare musica, suonarla e ascoltarla. Il nucleo del libro è il racconto della spedizione in Bretagna; si scopre così che alla partenza per Finistère non c'era praticamente materiale e che Ko de mondo venne costruito da zero in un mese e mezzo nell'ameno scenario di Le Prajou, la grande magione ai confini del mondo affittata per l'occasione dalla casa discografica. A tratti sembra di leggere un romanzo, anche perché i membri dei C.S.I., con le loro personalità forti e definite, avevano tutti i caratteri di personaggi di fantasia. Si pensi ai due chitarristi, Zamboni e Canali, così diversi anche solo nell'aspetto, oppure al deus ex machina Maroccolo o al perfezionismo da scuola classica di Magnelli, per non parlare dell'aura mistica che da sempre circonda Ferretti. Leggendo il volume sembra di trovarsi con loro nell'avita dimora in Bretagna mentre il disco viene suonato e registrato. Ovviamente solo chi conosce Ko de mondo può capire alcuni passaggi, in quanto la lettura non può prescindere da un previo ascolto dell'album. 
Negli ultimi tempi si è rinnovato l'interesse intorno al Consorzio, merito soprattutto della reunion dei CCCP; c'è stato dunque un proliferare di interviste, ristampe, libri fotografici e celebrativi, come non si vedeva da tempo. Ciononostante, il libro di Zoppo è riuscito a ritagliarsi uno spazio, forse proprio per la sua specificità del concentrarsi solo su una breve frazione di questa storia di rock nostrano. Per tali ragioni, è un saggio destinato prevalentemente ai fan, che potranno scovarvi molte curiosità, interviste inedite e punti di vista differenti. Ritengo tuttavia possa essere letto anche da tutti gli amanti del rock italiano che, pur non essendo appassionati del Consorzio, abbiano voglia di conoscere una bella storia degli anni Novanta che meritava di essere raccontata così dettagliatamente.