21 dicembre 2025

"Francesco II di Borbone. L'ultimo re di Napoli" di Pier Giusto Jaeger: la dignità dei vinti

Si dice che la storia la scrivano i vincitori. Tuttavia, spesso è l'odissea dei vinti a far battere di più il cuore dei lettori. Si pensi agli ultimi giorni del Regno delle Due Sicilie, agli assedi di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto. Un manipolo di fedelissimi che difesero un lembo di territorio e, con esso, un sistema secolare di valori, princìpi e ideali che facevano capo a una dinastia ormai al tramonto. Com'è possibile non provare un moto istintivo di simpatia verso quegli uomini? E com'è possibile non provare viva compassione per il loro re? Un ragazzo neppure venticinquenne che subì l'onta del tradimento dei propri generali, l'indifferenza (se non l'ostilità) delle potenze straniere e l'aggressione da parte di uno Stato che si diceva amico e fratello.
Francesco II di Borbone. L'ultimo re di Napoli è un saggio scritto da Pier Giusto Jaeger (1936-2008) e pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 1982. A distanza di tanti anni resta un'opera validissima per conoscere meglio il sovrano, per almeno due buone ragioni. Innanzitutto si tratta di uno dei primi lavori che hanno inteso rivalutare, nell'ottica dell'obiettività storiografica, una figura che per oltre un secolo era stata ingiustamente derisa e vilipesa sulla base di illazioni e stereotipi. In secondo luogo, il saggio è di molto precedente alla corrente revisionista e "neoborbonica" che si è affermata negli ultimi tempi, la quale, pur avendo il merito di far luce su vicende raccontate finora unilateralmente, d'altro canto viene criticata per un atteggiamento di partigianeria che non sempre si accompagna a un'analisi lucida e obiettiva. Jaeger, triestino di nascita, avvocato di professione e storico per passione, era sicuramente al di fuori delle contrapposte correnti di pensiero, interessato più che altro a restituire un'immagine di Francesco II il più possibile imparziale e senza intenti polemici. Non c'è dubbio che si evinca una certa simpatia per lo sfortunato re, ma il racconto scorre lungo i binari della neutralità ideologica e del rigore scientifico.
Il saggio di Jaeger non è una biografia in senso stretto. Salta infatti a piè pari l'infanzia, l'adolescenza e la prima giovinezza del re, per concentrarsi specialmente sugli ultimi mesi del suo dominio, ossia i giorni drammatici e gloriosi dell'assedio di Gaeta. Un atto dovuto e di onestà intellettuale, perché questo libro è stato uno dei primi a rivalutare una figura che i detrattori della sua epoca avevano semplicisticamente, aggiungo proditoriamente, descritta come debole e inetta. Non a caso gli epiteti giocosi, d'ironia popolaresca e tutto sommato innocui, come "Franceschiello" o "Re lasagna", sono stati utilizzati per decenni in malafede per sminuire questo sfortunato sovrano. Jaeger, si badi bene, non nasconde le debolezze di Francesco II, complice del suo destino infausto a causa di errori militari e politici marchiani che hanno contribuito alla caduta della dinastia. Nel saggio questi errori vengono tutti impietosamente evidenziati, al pari dei tradimenti di gran parte dell'élite militare e cortigiana del Regno. Al tempo stesso, però, lo storico triestino ha avuto il merito di distaccare il re dall'immagine da operetta che per lungo tempo gli è stata appiccicata addosso. Ne viene fuori il ritratto, più rispondente al vero, di un uomo giusto, retto, coraggioso, disinteressato ai beni materiali, devoto solo al proprio onore e all'incrollabile fiducia nella Provvidenza.
«Re Francesco collocava il suo onore al di sopra di ogni bene terreno, aveva gusti e bisogni semplicissimi e non teneva in alcun conto gli aspetti mondani della vita.»
Le pagine più intense del saggio sono quelle che descrivono l'assedio di Gaeta, fino all'epilogo del febbraio 1861, quando la coppia reale lasciò definitivamente la fortezza e si imbarcò sull'avviso francese Mouette. La vicenda militare viene narrata nei dettagli, con descrizioni accurate degli armamenti, degli ordini di battaglia, dei bombardamenti, delle condizioni di vita negli opposti schieramenti, nonché con ampie parti dedicate al racconto delle vicende diplomatiche, parallele a quelle militari. La storia dell'assedio è raccontata attraverso le parole dei protagonisti: lettere, dispacci, ordini del giorno, telegrammi. Ed è proprio sugli spalti di Gaeta che la figura di Francesco II venne definitivamente riabilitata. Il re infatti si espose a tutti i disagi e i rischi dell'assedio, alloggiando negli ultimi mesi in una casamatta e rinunciando a molti dei privilegi del suo ruolo.
«Se queste speranze sono sogni, v'ha almeno un punto che non ammette discussioni, ed è che combattendo pel mio diritto, soccombendo con coraggio e cadendo con onore io sarò degno del nome che porto e lascerò un esempio ai Principi futuri. E s'egli è vero che non v'abbia più speranza per la mia resistenza, mi resta ancora da provare al mondo che io son forse superiore alla mia fortuna.»
Accanto a lui la romantica figura della moglie, la regina Maria Sofia di Baviera, ricordata come l'eroina di Gaeta. Le ultime pagine del saggio si concentrano sui lunghi anni dell'esilio. La coppia reale trovò rifugio dapprima nella soffocante Roma papalina, così diversa dall'amata Napoli, poi a Parigi e infine in altri luoghi, fino alla prematura scomparsa di Francesco, avvenuta ad Arco di Trento nel 1894. Maria Sofia visse altri trent'anni e a lei sono dedicate le ultime, struggenti parole del volume.
Il libro di Jaeger può essere letto anche da chi non è interessato alla storia risorgimentale e agli ultimi palpiti del Regno delle Due Sicilie. È infatti, prima di tutto, la cronaca di una vicenda umana drammatica e irripetibile, quella di un giovane re oppresso da gravose responsabilità, che pure nell'ora più buia del tradimento, dell'aggressione e dell'esilio ha saputo rispondere agli schiaffi della sorte con ferma dignità, la dignità dei vinti.
«Io sono stato vittima della mia inesperienza, dell'astuzia, dell'ingiustizia e dell'audacia di una potenza ambiziosa; ho perduto i miei Stati, ma non la fiducia nella protezione di Dio e nella giustizia degli uomini. Il mio diritto è ora il mio solo patrimonio, ed è mestieri che per difenderlo io mi faccia seppellire, se fa d'uopo, sotto le fumanti rovine di Gaeta.»
(Lettera di Francesco II all'Imperatore Napoleone III di Francia)

Edizione in abbinamento con il quotidiano il Giornale

10 dicembre 2025

L'ultimo graffio dei Litfiba

La recente ristampa di Insidia a cura della Saifam è al contempo un atto di giustizia e un'operazione nostalgia. Atto di giustizia perché il secondo e penultimo album con Cabo alla voce non era mai stato ristampato dal 2001, sebbene sia considerato il migliore della trilogia senza Piero Pelù. Un'operazione nostalgia per quanti all'epoca erano adolescenti e ricordano il disco con affetto, perché, si sa, col tempo si apprezza di più ciò che appartiene ai giorni spensierati della giovinezza. Come ricorderà chi ha quarant'anni o più, la separazione tra Ghigo e Piero nel 1999 fu uno shock per i fan, da cui derivò una lacerazione tra chi appoggiò il nuovo corso e chi invece considerò i Litfiba morti e sepolti. Se la nuova incarnazione della band non decollò mai veramente, forse ciò dipese dalla scelta di mantenere il nome, rivelatasi un'arma a doppio taglio. Per quanto Gianluigi Cavallo fosse un ottimo musicista e un carismatico vocalist, i "nuovi" Litfiba non avrebbero potuto reggere il confronto con la propria storia ventennale, il fantasma di Piero e capolavori come Desaparecido e 17 Re.
Il primo album della nuova ditta Cabo & Ghigo si intitolava Elettromacumba ed era un lavoro ancora acerbo, con qualche buona intuizione ma non esaltante. Con Insidia il nuovo corso visse il suo momento più alto, dando alle stampe un disco intenso, vario, espressione di un rock forse non originalissimo, ma diretto e schietto, senza compromessi. Rispetto al precedente lavoro cambiò il batterista: Ugo Nativi fu sostituito da Gianmarco Colzi. Gianluigi Cavallo alla voce, Ghigo Renzulli alle chitarre e Gianluca Venier al basso completavano la formazione. Sebbene sia presente qualche innesto elettronico (Ruggine), è un disco prettamente elettrico con venature hard-rock e dark. D'altronde, si vocifera che alla base della separazione tra Ghigo e Piero ci sarebbero stati diverbi artistici, volendo il primo seguire la strada maestra del rock, laddove il secondo avrebbe preferito cimentarsi in sonorità più morbide sulla scia di Infinito.
Insidia è un disco valido dal primo all'ultimo solco, in cui anche i brani meno riusciti come Senza rete riescono a raggiungere la sufficienza. I primi cinque pezzi sono un crescendo di buone sensazioni. L'iniziale Mr. Hyde è una dichiarazione d'intenti che mette in chiaro dove si andrà a parare, ossia verso un rock solido che abbandona le trame pop di Infinito per recuperare le sonorità di Mondi sommersi (Dottor M. è il punto di riferimento più prossimo). La successiva, la title-track, viaggia su tappeti elettronici grazie alle tastiere del compianto Mauro Sabbione. Si ritorna alla ballata rock con La stanza dell'oro, non a caso scelta come singolo di lancio. Valida anche la successiva Nell'attimo, in cui sono evidenti gli echi di Spirito, a conferma della volontà di Ghigo di dare riconoscibilità e coerenza al progetto. La migliore del mazzo è, a mio avviso, Invisibile, una canzone che rivela l'intesa perfetta tra la voce di Cabo e la chitarra di Renzulli, che si diffonde in due begli assoli, impreziositi dall'inconfondibile wah wah. Si tratta del punto più alto dell'album, nonché, azzardo, una delle migliori canzoni dei Litfiba anni 1990/2000. La seconda parte del disco è meno incisiva, ma contiene comunque pezzi come Il branco (che anticipa le sonorità che caratterizzeranno il ritorno di Piero) e la conclusione soft di Oceano. In mezzo c'è Luce che trema, pezzo di quadrato hard-rock e duro atto d'accusa contro la pena di morte, nonché uno dei migliori testi di Cabo.
Con Insidia Ghigo & Cabo hanno esaurito la fase più feconda della loro collaborazione; non a caso, il successivo Essere o sembrare non ne è all'altezza. E se è vero che i testi sono meno incisivi di quelli di Pelù, va dato atto che in Insidia la voce di Cabo ha acquisito maggiore personalità, distaccandosi nettamente dal cantato "di maniera" di Elettromacumba.
Tornando a quanto scritto all'inizio della recensione, questa ristampa è dedicata specialmente a quanti nei primi anni Duemila hanno seguito le traversie dei Litfiba, dallo scioglimento alla ricomparsa con la nuova formazione. E così, inevitabilmente, a distanza di oltre vent'anni è possibile dare un giudizio più sereno di quegli eventi. Un giudizio necessariamente meno critico, se è vero che tutto ciò che è venuto dopo in ambito musicale ci consente di guardare a Insidia con affetto e benevolenza. Anche i successivi album con Pelù, Grande nazione del 2012 ed Eutòpia del 2016, sono inferiori, a giudizio di molti. E allora questa ristampa è graziosa benevolenza nei confronti di chi la reclamava come un ricordo postumo della giovinezza perduta. Ci fa comprendere che eravamo felici e non ce ne rendevamo conto.
La copertina della ristampa 2025

24 novembre 2025

"L'isola misteriosa" di Jules Verne: il più classico tra i classici

«Maestro, quanti sogni avventurosi
sognammo sulle trame dei tuoi libri!
[…]
Pace al tuo grande spirito disperso,
tu che illudesti molti giorni grigi
della nostra pensosa adolescenza.»
In morte di Giulio Verne non è la più famosa tra le poesie di Gozzano, eppure è un piccolo gioiello che vibra di sincera commozione e gratitudine. Un tempo erano i romanzi d'avventura ad accendere la fantasia dei giovani, ancora prima del cinema e dei fumetti. Gli scrittori erano dunque considerati dei miti, come poi accadrà con attori e rockstar.
Tra tutti i romanzi di Verne, L'isola misteriosa è uno dei più celebri, nonché uno dei migliori a giudizio di critici e lettori. È un classico intramontabile che merita di essere letto a tutte le età, perché oltre al piano squisitamente narrativo contiene riflessioni sempre valide che si possono apprezzare anche da adulti. La vicenda si svolge durante la Guerra civile americana, a metà dell'Ottocento. Cinque uomini vengono fatti prigionieri dai sudisti e condotti nella città di Richmond, dove possono muoversi liberamente ma da cui non possono allontanarsi. Durante una notte di tempesta riescono tuttavia a imbarcarsi a bordo di un pallone aerostatico, mollano le zavorre e scompaiono tra le nubi. Dopo un lungo e faticoso viaggio naufragano su un'isola apparentemente deserta, da loro ribattezzata Isola Lincoln.
Con questo libro Jules Verne cantò la cieca fiducia nelle sorti progressive dell'umanità. I cinque protagonisti infatti, sbarcati coi soli vestiti addosso e poco altro, col duro lavoro e avvalendosi della propria intelligenza riescono a insediarsi nella terra in cui il caso li ha gettati, trasformandola da landa desolata in colonia autosufficiente. Questa fiducia assoluta nell'uomo e nei suoi mezzi è un valore tipicamente ottocentesco, quando il rapido progresso della scienza e della tecnologia dava l'idea che tutto fosse possibile. Purtuttavia Verne, da precursore dei tempi qual era, anticipò anche alcuni principi ecologisti che si sarebbero fatti largo nel secolo successivo, come la consapevolezza della limitatezza delle risorse naturali, una certa coscienza ambientalista e l'amaro convincimento che il potere dell'ingegno umano è destinato ad arrendersi di fronte alle sovrane leggi di madre natura.
I cinque protagonisti della vicenda sono uomini del loro tempo. Cyrus Smith, il capo indiscusso, è un ingegnere; la sua sapienza tecnica e scientifica è illimitata e non esiste campo del sapere in cui non sia versato. Il secondo più autorevole è Gideon Spilett, giornalista di professione che non disdegna di abbandonare la penna per dedicarsi ai lavori manuali. Harbert, il più giovane del gruppo, è un ragazzo che studia da naturalista: piante e animali non hanno segreti per lui. Pencroff è invece un burbero marinaio, che sotto la scorza del lupo di mare nasconde un cuore d'oro. Infine c'è Nab, cuoco abilissimo e anch'egli espertissimo di tutti i lavori manuali. Nab è un uomo di colore ed è il personaggio che parla di meno e spesso si esprime con una disarmante ingenuità. Questa caratterizzazione stereotipata, persino velatamente razzista, è tuttavia figlia del suo tempo e come tale va inquadrata. Ciò non rispecchia però le idee dei suoi compagni, tutti convinti antischiavisti che trattano Nab con massimo rispetto e amicizia. Un sesto membro della spedizione è il cane Top, quadrupede fedele e intelligente che in più di un'occasione si rivela un aiuto preziosissimo. Infine non si può dimenticare l'Isola Lincoln, forse il vero protagonista del romanzo. Verne l'ha descritta così minuziosamente che i suoi paesaggi rimangono scolpiti nella mente del lettore, dando quasi l'impressione di trovarsi lì a condividere le peripezie del gruppo di coloni.
L'isola misteriosa è un libro su cui si è scritto di tutto, né è possibile aggiungere alcunché. Come tutti i grandi classici, però, ha sempre qualcosa da dire. In primis è una storia senza tempo che contiene tutti gli ingredienti dell'Avventura con la A maiuscola: un'isola sperduta e non segnata sulle carte, alcuni eventi inspiegabili e persino inquietanti, un rompicapo da risolvere, una misteriosa e invisibile presenza salvifica, lotte contro animali feroci e invasioni di pirati, burrasche ed eruzioni vulcaniche. Tutti ingredienti che sanno accendere la fantasia dei lettori a prescindere dalla data di nascita, purché abbiano voglia di lasciarsi trasportare dalla formidabile penna del Maestro Jules Verne.
Una recente edizione Feltrinelli

8 novembre 2025

"Poco zucchero", il cinico e tagliente Faust’O

A fine anni Settanta si affermarono nuovi volti nella fitta schiera del cantautorato nostrano. Personaggi diversi dal cliché dell'artista impegnato "di sinistra" che aveva furoreggiato nel decennio, i quali presentavano una proposta musicale diversa, spesso più vicina alle influenze straniere. Penso all'ironia graffiante di Alberto Fortis, oppure al mitteleurock di Gino D'Eliso, fino ad arrivare alle tentazioni art-rock di Garbo qualche anno dopo. Tra questi, una figura ancora più radicale che merita un discorso a parte è quella di Fausto Rossi, nativo di Sacile e più conosciuto con lo pseudonimo di Faust'O.
Aveva esordito nel 1978 con un album dalle tinte forti e dal titolo eloquente: Suicidio. Conteneva brani come Benvenuti tra i rifiuti, Godi, Bastardi e Il mio sesso, veri e propri gioielli di piccolo culto ancora ricordati da una sparuta schiera di fedelissimi, come si evince da una sommaria ricerca sulla rete. L'anno successivo fu la volta di Poco zucchero, secondo lavoro in studio pubblicato nel 1979 dall'etichetta Ascolto di Caterina Caselli. Fu registrato nei mesi di febbraio e marzo presso il "Radius Studio" sotto la sapiente produzione artistica dello stesso Faust'O e del compianto Alberto Radius. Nutrita e di livello la schiera dei musicisti coinvolti, tra cui Claudio Pascoli al sax, Walter Calloni e Tullio De Piscopo alle percussioni, Radius alla chitarra elettrica e il bassista statunitense Julius Farmer. Fausto Rossi, oltre a cantare, suona tastiere e sintetizzatori, tra cui l'italico polifonico Crumar.
Nell'iniziale Vincent Price, scritta a quattro mani con Oscar Avogadro, si nota il tocco di Radius: è un pezzo marcatamente rock con chitarra elettrica in evidenza, in cui la figura dell'istrionico attore statunitense, noto per aver interpretato celebri pellicole horror, diventa la metafora per esprimere un messaggio inquietante: è fuorviante cercare il mostro negli altri, il mostro è dentro di noi, anzi siamo noi.
«Ma quando alla mattina scopri allo specchio
la faccia che hai,
e mentre fai la barba giunge un suono all'orecchio:
sta russando anche lei.
Dubbi ormai non hai più,
quei due occhi e quel mostro sei tu.»
Spesso il nome di Faust'O è associato alla new wave, quantomeno per la prima fase della sua carriera di cui fa parte anche Poco zucchero. In questo LP le influenze del genere appaiono effettivamente marcate, soprattutto in virtù dell'ampio uso di tastiere e sintetizzatori che regalano quel suono algido tipico appunto della new wave. Si ascolti Il lungo addio, un'anomala canzone d'amore dalle atmosfere glaciali e rarefatte che sostengono la voce tagliente del cantautore. Il brano, forse il migliore della scaletta, ricorda Vienna degli Ultravox, con la precisazione che il capolavoro della band inglese fu pubblicato l'anno successivo. Altre canzoni si allontanano invece dal genere citato, come l'intensa Attori malinconici o la radiofonica Oh! Oh! Oh!, più vicine a un pop raffinato. Il canto si fa sussurro in Kleenex, altro pezzo di culto, con un testo che sfida la buona creanza e osa varcare i limiti della comune decenza. D'altronde, le liriche che inquietano sono il suo marchio di fabbrica, ora sinistramente ironiche, ora dirette come un gancio in faccia.
«La mia lingua su un tampax
sfiora la castità,
per servirti ho il mio Rolex,
per freddarti ho l'età.»
L'album, della durata di poco più di trenta minuti, si chiude con i sette minuti di Funerale a Praga. L'inizio è quasi di matrice progressiva, in stile Pink Floyd; quando però arriva la voce salmodiante di Faust'O, il pezzo assume un incedere funereo, fino alla meravigliosa coda finale di sintetizzatori e sassofono.
Provocazione, feroce sarcasmo e attitudine punk sono le chiavi di lettura di questo album e più in generale dell'intera produzione di Fausto Rossi, figura anomala e anarchica nel panorama cantautoriale nostrano. Conosciuto da pochi, idolatrato da un manipolo di irriducibili appassionati, di lui si può dire tanto, nel bene o nel male, ma di certo gli vanno riconosciute la coerenza e la capacità di seguire una strada diversa da quella battuta dagli altri. Poco zucchero è un disco cinico e tagliente, come lo sguardo sul mondo di questo artista.

25 ottobre 2025

Le ombre del sogno irlandese

Il vento che accarezza l'erba, Palma d'oro nel 2006 al 59.mo Festival di Cannes, è forse il film più crudo di Ken Loach. Il regista inglese, da sempre incline a un cinema militante e impegnato, con questo lungometraggio ha toccato picchi di drammaticità e finanche di violenza ineguagliati nella sua vasta produzione.
La vicenda è ambientata in Irlanda, durante la guerra d'indipendenza (1919-1921) e la successiva guerra civile. Narra le travagliate vicende che portarono alla nascita dello Stato libero d'Irlanda a seguito del Trattato anglo-irlandese. Questo Stato, progenitore dell'attuale Repubblica d'Irlanda, nacque come dominion dell'Impero britannico, dotato di una certa autonomia ma di fatto dipendente da Londra. Gli esiti del tanto agognato accordo non accontentarono l'ala oltranzista degli indipendentisti, che consideravano il trattato un inaccettabile compromesso rispetto all'auspicata piena indipendenza. Scoppiò così una guerra civile. Bastano queste poche nozioni di storia per comprendere un film che comunque presenta scene didascaliche che, lungi dall'essere pedanti, aiutano a comprendere la vicenda.
In un'amena contea irlandese vivono i fratelli O'Donovan, ossia il giovane medico Damien (interpretato da Cillian Murphy) e Teddy (Pàdraic Delaney), il maggiore. Teddy è un dirigente dell'I.R.A., mentre Damien ha deciso di lasciare la travagliata madrepatria per lavorare in un ospedale di Londra. Tuttavia anch'egli decide infine di rimanere, entrando a sua volta nell'I.R.A., dopo aver assistito all'uccisione di un amico d'infanzia da parte dei soldati inglesi, nonché al violento pestaggio di un ferroviere repubblicano che si era rifiutato per protesta di trasportare sul proprio convoglio le truppe di sua maestà.
Il conflitto è il tema al centro del film, a diversi livelli. Al primo c'è quello tra inglesi e irlandesi, poi quello interno alla stessa causa irlandese e infine il conflitto tra i due fratelli. Il dramma della vicenda pubblica si riverbera su una "questione privata", per dirla alla Fenoglio. Teddy accetta il trattato di compromesso e depone le armi, nella speranza che con il tempo e la diplomazia l'Irlanda possa conquistare la totale indipendenza; Damien, invece, ripudia le scelte del fratello e si dà alla macchia con l'ala più intransigente dell'I.R.A. La guerra civile diventa guerra fratricida nel senso letterale del termine; Loach porta il conflitto fino alle estreme conseguenze, come dimostra il devastante finale, forse il punto debole del film per eccesso di drammaticità.
Il regista di Nuneaton non mostra dubbi. La sua regia asciutta e senza fronzoli è al servizio della sceneggiatura del fido Paul Laverty, che tira dritto con una visione militante, a tratti manichea. Il rischio dietro l'angolo è quello di una eccessiva semplificazione, dove gli inglesi stanno inequivocabilmente dalla parte del torto: violenti, usurpatori, razzisti e insensibili agli altrui diritti. Dall'altra parte della barricata ci sono invece gli irlandesi: essi lottano per una giusta causa e ogni loro azione, persino le più violente e spregiudicate, è trattata con maggiore benevolenza. Il cineasta, pur non avendo dubbi su quale fazione sostenere, appare tuttavia consapevole dei rischi di un'eccessiva semplificazione. Viene dunque inserita nella sceneggiatura l'altra faccia della medaglia della giusta causa, le ombre del sogno irlandese. Anche gli indipendentisti durante quella guerra si sono resi responsabili di omicidi, esecuzioni sommarie e vendette. Non a caso tra le scene più crude del film c'è l'esecuzione senza processo di un possidente irlandese e di un giovanissimo membro dell'I.R.A. reo di tradimento.
Il sogno irlandese narrato nel film è anche quello di una società più giusta, dove la ricchezza possa essere distribuita equamente tra tutti. Loach riveste la lotta per l'indipendenza di un popolo con i colori dello scontro di classe, come dimostra l'eloquente scena del processo al capitalista usuraio. Al di là di alcuni eccessi ideologici, che tuttavia sono il marchio di fabbrica di Loach e come tale vanno accettati, Il vento che accarezza l'erba è destinato a restare a lungo nella memoria collettiva. È un film rabbioso e potente, impreziosito da un'ottima fotografia, dove le amene brughiere dell'Irlanda antica e rurale diventano lo splendido scenario di una storia sanguinosa di ingiustizie, da ambo le parti, che a distanza di cento anni gridano ancora vendetta.
La locandina italiana

12 ottobre 2025

"Aria", il Mediterraneo che abbraccia l'Inghilterra

Ripensando a certi dischi letteralmente consumati da adolescente, mi meraviglio della costanza che all'epoca avevo nell'ascoltare ripetutamente e assimilare album "difficili". La verità è che avevo più tempo e meno opportunità. Più tempo libero perché almeno due ore della giornata erano dedicate all'ascolto. Meno opportunità perché non c'era la varietà offerta gratuitamente da internet, i soldi erano di meno e quindi prima di archiviare un disco lo ascoltavo a ripetizione, soprattutto se la prima impressione non era stata positiva. Eppure ricordo che Aria di Alan Sorrenti (1972) mi conquistò subito.
Ne avevo sentito parlare in un articolo sul settimanale Musica!, all'epoca il mio principale punto di riferimento assieme a un altro pilastro dell'editoria musicale nostrana, il compianto Mucchio selvaggio. Ovviamente di Alan Sorrenti conoscevo le hit, i tormentoni pop che gli hanno garantito il successo. Quando appresi dell'esistenza di un album anomalo come Aria, la curiosità prese il sopravvento sul pregiudizio. Le recensioni erano così entusiastiche che non esitai ad acquistarne una ristampa in cd della Sony, credo fosse il 2005.
Quattro tracce in tutto, quaranta minuti, sufficienti per innalzare il musicista italo-gallese tra le stelle del progressive nostrano. Una suite di diciannove minuti che occupa l'intera prima facciata, una ballata acustica che si colloca tra le migliori canzoni d'amore della musica italiana, due pezzi tra il mistico e lo stralunato, tanto bastò a Sorrenti per firmare uno degli esordi più folgoranti che si ricordino. Aria fu una rivoluzione nel panorama musicale dell'epoca, un crogiolo di suoni e poesia, un disco d'avanguardia eppure per niente ostico. La suite che dà il titolo all'album, come detto, dura oltre diciannove minuti ma non conosce neppure un calo d'ispirazione. Aria è il Mediterraneo che incontra l'Inghilterra, la melodia di Napoli e la sperimentazione di Londra, la tradizione che abbraccia il futuro, una voce eccelsa e mai di maniera. Fosse stato pubblicato nel Regno Unito, oggi sarebbe ricordato come uno dei più grandi dischi prog di sempre.
Aria è un LP che profuma di India, d'incenso e misticismo. Le atmosfere sono rarefatte e il sentimento che domina è la malinconia, o forse sarebbe più corretto parlare di saudade, quel termine portoghese difficilmente traducibile nella nostra lingua che indica (anche ma non esaustivamente) uno struggimento verso qualcosa o qualcuno che è stato e ora non è più, il tendere verso un passato reso mitico dai ricordi. Questo senso di indeterminatezza è già nella copertina, di sicuro impatto visivo: una specie di selva stilizzata color blu, da cui emerge una figura inquietante di profeta, quasi un Cristo che avanza verso una specie di acquitrino. L'impressione è confermata dalle fotografie del libretto interno che ritraggono Alan nelle vesti di un mistico orientale. Qualcuno potrebbe opinare che si tratti di un immaginario "da fricchettone", ma io ritengo che questa scelta grafica abbia retto alla prova del tempo.
Per registrare questo primo lavoro, Sorrenti scelse un fidato manipolo di musicisti: Tony Esposito alla batteria, Vittorio Nazzaro al basso e alla chitarra solista, Albert Prince alle tastiere, con la partecipazione del violino di Jean Luc Ponty nel pezzo che dà il titolo all'album. Aria, la traccia che apre il disco, si dipana in un crescendo di suggestioni sonore e liriche. Alan usa la propria voce in falsetto come uno strumento, al pari di artisti del calibro di Peter Hammill o Tim Buckley; ne viene fuori una commistione perfetta di musica e parole. La lunga suite non si può descrivere, va ascoltata più volte e assimilata. Seguono altre tre canzoni dal minutaggio più basso. Vorrei incontrarti è una delicata ballata dell'amore perduto, un viaggio di quattro minuti fatto di voce e chitarra acustica, fino alla comparsa nel finale di una struggente fisarmonica.
«Vorrei incontrarti fuori i cancelli di una fabbrica,
vorrei incontrarti lungo le strade che portano in India.»
Un fiume tranquillo e La mia mente chiudono il disco. Sono due tracce sperimentali nella struttura e nel testo; non sono canzoni nel senso stretto del termine, perché non seguono il classico schema strofa-ritornello-strofa. Un fiume tranquillo è il punto d'arrivo del viaggio del mistico, dopo le dolorose peregrinazioni dell'eterno vagare. Ascoltarla dà un senso di pace e di definitivo.
«La mia scarpa la troverete vicino a un marciapiede
e il mio corpo lontano, nelle sale di un dormitorio,
la mia mano in un fosso e il mio occhio nel cielo.
Quel fiume sa dov'è la mia casa, quel fiume per me esiste.»
L'anno successivo Sorrenti ci provò di nuovo con un disco dal nome criptico: Come un vecchio incensiere all'alba di un villaggio deserto. Nonostante qualche ottimo spunto, il guizzo dell'esordio sembra già svanito e anche la lunga title-track, pur validissima, non ha il medesimo fascino della precedente. Dopo un terzo album di transizione, di cui va segnalata la splendida versione di Dicintecello vuje, il nostro approderà ai fortunati lidi del pop da classifica. E proprio questa inversione di rotta consacrerà Aria nell'olimpo delle cose più belle mai prodotte nel nostro Paese.

29 settembre 2025

"Un amore" di Dino Buzzati: cronaca di un'ossessione

Romanzo anomalo nella produzione di Buzzati, Un amore è la cronaca di un'ossessione. Nella Milano brulicante di vita del boom si consuma il dramma privato di Antonio Dorigo, architetto e scenografo alla soglia dei cinquant'anni che conosce soltanto l'amore mercenario. Scapolo per inadeguatezza più che per scelta, si innamora della ventenne Laide quando si era ormai convinto che la vita non gli avrebbe più regalato alcuna emozione. Nonostante la giovane età, Laide è un inestricabile mistero. Antonio la conosce come prostituta, ma la ragazza afferma di essere ballerina alla Scala. Si concede per denaro eppure non accetta il patto di esclusività che Antonio le propone, disposto a dar fondo alle proprie finanze per mantenerla, pur di averne l'esclusività. L'attrazione fisica diventa innamoramento e l'innamoramento ossessione, fino al punto che Antonio perde se stesso, occupando le proprie giornate col pensiero fisso della giovane.
Bella, cinica, indipendente, spregiudicata ai limiti dell'immoralità, promiscua e bugiarda, Laide conduce Antonio sull'orlo della follia perché è un essere del tutto incomprensibile e sfuggente. In lei non è possibile scindere la bugia dalla verità, entrambe sembrano avere il medesimo peso specifico e la stessa credibilità. Racconta palesi bugie, eppure è così convincente che queste assumono la dignità dell'assoluta verità, almeno agli occhi di Antonio. Buzzati ha creato un personaggio femminile difficile da dimenticare; Laide è una figura moderna, figlia di un'epoca, gli anni Sessanta, che ha visto la liberazione dei costumi, in special modo quelli sessuali, nonché il consolidamento del processo di emancipazione femminile iniziato alla fine del secolo precedente. C'è dunque una differenza anche generazionale tra Antonio e Laide: il primo ha fatto la guerra ed è legato ancora all'idea obsoleta che il denaro gli dia un potere assoluto di assoggettamento delle donne. La seconda è una figlia del boom perfettamente integrata nel proprio tempo e non esita a vendere il corpo senza che ciò la renda una schiava. Intorno ai due protagonisti si muovono pochi personaggi secondari, figure di contorno appena abbozzate la cui irrilevanza amplifica la perversione del nucleo duale costituito dagli amanti. Eppure, a veder bene, c'è un terzo protagonista: la Milano frenetica e proiettata al futuro del boom. La storia è ambientata nell'anno 1960, quando ormai le tracce del conflitto mondiale erano sparite; la città cresceva, si avviluppava su se stessa, con le sue guglie, palazzi, grattacieli, torri e condomìni. Le vecchie case di ringhiera resistevano negli stretti vicoli al confine del centro storico, ma un po' alla volta cedevano il passo ai simboli della modernità: caffè alla moda al posto delle latterie, night club al posto delle balere, uffici e sedi di neonate società che agognavano una fetta di capitalismo.
In questo contesto di disarmo urbano si sviluppa l'incastro malato tra Antonio e Laide, un amore (ma è davvero tale?) non convenzionale ostacolato dalle convenzioni borghesi. È qui la grande colpa di Antonio, ennesima dimostrazione della sua inettitudine: anziché chiedere a Laide di sposarlo, le propone uno squallido accordo economico. Timoroso di perdere la propria credibilità facendosi vedere al fianco della giovane, egli sottoscrive così la propria rovina, amplificata, a mio modesto avviso, dall'ambiguo finale.
Un'altra tematica centrale del romanzo è il divario generazionale, tanto più evidente in anni in cui la società andava incontro a cambiamenti repentini. Seguendo questo filone interpretativo, assistiamo a una sorta di inversione di ruoli: Antonio, già sull'orlo della senescenza, mantiene l'adolescenziale fiducia nell'amore come soluzione a tutti i suoi problemi esistenziali; d'altro canto Laide, appena ventenne, possiede già il cinismo e la spregiudicatezza di chi non si aspetta più nulla dalla vita.
Un amore è un romanzo ancora attuale perché certi meccanismi e incastri sentimentali "malati" fanno parte del complesso gioco delle relazioni umane, oggi come allora. Cambiano forse gli strumenti – si pensi alle possibilità di controllo che oggi sono offerte dagli smartphone – ma l'ossessione e il desiderio di possesso sono costanti nel tempo. E Buzzati ha saputo raccontare magistralmente tale tema, pur allontanandosi dai suoi soliti terreni d'elezione letteraria.
Copertina di una vecchia edizione Oscar Mondadori

14 settembre 2025

"Rosa Bronzo, l'ammazzabimbi di Vallo della Lucania" di Giuseppe Galzerano: la fabbricatrice di angeli

Quando la cronaca ci porta a conoscenza di efferati delitti, siamo indotti a credere che siano il frutto della modernità, di una "società malata" che ha perso i valori di un tempo. Si tratta di una falsa percezione, un pregiudizio dettato dalla scarsa conoscenza del presente e soprattutto del passato. Scartabellare i vecchi giornali ci restituisce invece vicende terrificanti e del tutto dimenticate che raramente potrebbero verificarsi ai giorni nostri. Tale attività di ricerca è stata condotta dallo storico cilentano Giuseppe Galzerano che ha riportato alla luce una storia terribile avvenuta circa centocinquanta anni fa, di cui si erano perse le tracce e la memoria.
Rosa Bronzo era una donna di Vallo della Lucania, cittadina in cui alla fine dell'Ottocento gran parte della popolazione viveva in condizioni misere, pur essendo capoluogo di circondario. La Bronzo era nota alla giustizia per una vecchia condanna per furto aggravato che le era costata un periodo in carcere. Intorno al 1877, costretta dall'indigenza, si inventò un lavoro che si rivelò remunerativo: accogliere nella propria casa i neonati indesiderati, perché nati al di fuori del matrimonio o frutto di relazioni adulterine, incaricandosi di condurli all'orfanotrofio di Salerno. La "ruota" di Vallo era stata infatti abolita nel 1875 e il viaggio fino a Salerno era un'odissea per quanti avrebbero voluto affidare i neonati alla pubblica misericordia, in assenza di ferrovie e di strade degne di questo nome. In breve la casa di Rosa divenne meta di tante madri disperate che le lasciavano i loro bimbi, il cui numero esatto non è mai stato accertato. La Bronzo, per rendere più remunerativa l'attività, decise di intraprendere il periodico viaggio verso Salerno dopo aver raccolto un numero sufficiente di bambini, anziché portarne uno alla volta. Non aveva però di che sfamarli e così alcuni neonati morirono di stenti. Altri li ammazzò la stessa Rosa, o strozzandoli con le proprie mani perché esasperata dai pianti, o avvelenandoli con potenti dosi di estratto di papavero, una sorta di sonnifero naturale. Molti sapevano, anche alcune madri, ma il senso di vergogna e l'omertà consentirono a Rosa di operare indisturbata per quasi due anni, fino alla perquisizione della sua abitazione, al ritrovamento dei poveri resti di numerosi bambini e all'arresto da parte dei Carabinieri. Il numero esatto di vittime non è stato mai accertato.
Giuseppe Galzerano, storico molto conosciuto nel Cilento e titolare dell'omonima casa editrice, imbattutosi per caso in un articolo di giornale dell'epoca, ha deciso di far venire alla luce una storia da brivido che nessuno più ricordava, nemmeno nel paese natale. Attraverso un lungo lavoro di ricerca, Galzerano ha riportato nel suo saggio tutti gli articoli di giornale che si occuparono del caso della "fabbricatrice di angeli", come la definì il neonato (all'epoca) Corriere della Sera. Nel libro sono così riportati stralci del Roma, della Gazzetta dei tribunali, della Gazzetta Piemontese, de Il Carabiniere e finanche di Le Figaro, in quanto la vicenda destò orrore anche oltralpe.
Nonostante il lavoro archivistico, l'autore spiega a malincuore come non sia riuscito a trovare l'incartamento del processo. Neppure si sa con certezza se la Bronzo fu giudicata dalla Corte di Assise di Vallo o da quella di Napoli. Il Corriere della Sera parla di una condanna a vita ai lavori forzati, ma dopo questo trafiletto la notizia scompare dalle cronache e con essa l'inquietante figura di Rosa Bronzo. Come si è difesa durante il processo? Cosa hanno sostenuto l'accusa e la difesa? Dove ha scontato la sua pena? Dove e quando è morta? Ha ottenuto la grazia o uno sconto di pena, oppure è morta durante l'esecuzione della condanna? Domande legittime che finora sono rimaste senza risposta, come evidenzia l'autore del saggio. La speranza è che prima o poi emergano nuovi documenti che possano chiarire gli esiti e il perché di una vicenda così macabra e oscura. I motivi dell'agire di Rosa potrebbero essere molteplici: una patologia psichiatrica, l'invidia per non essere mai diventata madre lei stessa, oppure semplicemente un movente economico, una squallida storia di estrema indigenza nel misero Cilento di fine Ottocento.
Personalmente non seguo la cronaca nera, anzi la evito in quanto non ho mai provato interesse per queste vicende di sangue. Il saggio è invece consigliato alla nutrita schiera di "appassionati" di biografie di serial killer. Io ho acquistato il libro principalmente perché sono interessato alla storia del Cilento e in effetti il saggio restituisce il quadro desolante di una terra a quel tempo divisa tra credenze ancestrali (il sangue, l'onore) e tendenze modernizzatrici del pensiero, destinate infine a prevalere.

31 agosto 2025

"Sulla collina nera" di Bruce Chatwin: il respiro di due vite

Questo libro è la prova che Chatwin non era solo un cronista di viaggi, veste in cui di solito viene ricordato, ma principalmente un ottimo narratore. Il racconto della vita dei fratelli Jones possiede infatti il respiro delle grandi saghe familiari, nonché un'impronta di perfetta compiutezza letteraria che appartiene soltanto ai grandi romanzi. Per quanto forse sia un giudizio azzardato, ritengo che Sulla collina nera non possa mancare in un'ideale biblioteca del Novecento europeo.
La vicenda è ambientata in Galles, ma potrebbe allo stesso modo svolgersi negli Stati Uniti rurali o in uno qualsiasi dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, oppure in Estremo Oriente; è infatti una storia profondamente britannica ma al tempo stesso universale. Chatwin ha saputo raccontarla secondo un punto di vista "locale" e tuttavia non provinciale, se è vero che, al netto dell'ambientazione, alcune delle tematiche trattate sono comuni a buona parte della letteratura novecentesca. Curioso è il fatto che proprio lui che ha girato il mondo e ha sempre prediletto gli spazi immensi e senza confini (si legga In Patagonia), abbia poi ambientato il suo più grande romanzo in uno spazio confinato, un lembo di terra gallese ai piedi della Black Hill, l'altura del titolo.
Sulla collina nera è principalmente la storia dei gemelli Benjamin e Lewis Jones. Invero il romanzo segue pedissequamente l'esistenza dei due, dalla nascita alla fine dell'Ottocento fino ai loro ultimi giorni negli anni Ottanta dello scorso secolo. Tuttavia si tratta di un'affermazione riduttiva, per quanto corretta. Chatwin infatti ha costruito un grande romanzo corale, cosicché si può ben dire che Sulla collina nera sia la storia di una comunità rurale che attraversa quasi senza accorgersene le grandi rivoluzioni del Ventesimo secolo: due guerre mondiali, la diffusione delle automobili, la nascita e lo sviluppo del trasporto aereo, le controculture, i movimenti di protesta, il subbuglio politico dell'epoca thatcheriana, le crisi economiche dei dopoguerra e le rinascite. Tutti questi eventi passano sopra quel pezzo di terra gallese e lo scalfiscono a poco a poco, pur non riuscendo a mutarne le solide radici più profonde. 
Lewis e Benjamin sono nati all'ombra della collina nera e ivi trascorrono tutta la loro esistenza, senza mai abbandonare la fattoria ereditata dai genitori, chiamata icasticamente "La Visione". Apparentemente indistinguibili, sono in realtà profondamente diversi. Lewis è un sognatore riottoso, recalcitrante ma infine sottomesso alle regole stabilite prima dai genitori e poi dal fratello; egli vorrebbe fuggire dalla Visione e condurre un'esistenza diversa, ma obtorto collo finisce per soccombere. Benjamin è pratico, poco avvezzo al mondo esterno e per nulla desideroso di conoscerlo; ama il gemello ai limiti dell'ossessione e lo lega a sé, in un'esistenza sempre uguale scandita soltanto dal ritmo delle stagioni. Benjamin è la catena che lega l'uomo alla terra, Lewis il cane che vorrebbe morderla per fuggire via. Ciononostante, gli anni passano uno dopo l'altro senza che i grandi cambiamenti della storia mutino le sorti degli abitanti della Visione e delle terre intorno.
Chatwin descrive una Gran Bretagna rurale in parte diversa da quella a cui ci avevano abituato scrittori come Hardy (La brughiera); egli rappresenta una campagna amena ma avara come quella dell'americano Caldwell, abitata da uomini e donne che conducono spesso un'esistenza misera e brutale. Benjamin e Lewis grazie al duro lavoro possono dirsi finanche agiati, eppure nulla godono delle loro ricchezze: rosi dall'ossessione dell'accumulare nuova terra, consumano la vita nell'ansia di sprofondare nella medesima miseria di alcuni loro vicini. Per questo non hanno tempo di volgere lo sguardo al progresso e si chiudono sempre di più nelle loro abitudini. La Visione è dunque il loro hortus conclusus, uno spazio chiuso che al tempo stesso li preserva e li limita. Chatwin tuttavia non giudica i gemelli, posa uno sguardo benevolo su di loro, li tratta come gli ultimi eredi di una razza in via di estinzione, tenacemente refrattaria alla modernità e protagonista di una storia senza tempo.
Lo stile merita una riflessione a parte. Dialoghi e parti descrittive sono perfettamente dosati, soluzione tanto più necessaria in quanto il libro copre più di ottant'anni in poco meno di trecento pagine. Dense e vivide sono poi le descrizioni del paesaggio rurale inglese, arricchite da innumerevoli nomi di arbusti, fiori rari, alberi e uccelli.
Sebbene non sia consigliabile a chi cerca nei libri le emozioni forti, Sulla collina nera è un romanzo potente e armonioso, che conquista alla distanza.

19 agosto 2025

"Quattro amici" di David Trueba: l'inutile fuga

La letteratura picaresca, come noto, è nata in Spagna, dove gode di lunga tradizione. Nei romanzi picareschi il protagonista e io narrante di solito intraprende un viaggio, spesso per fuggire da qualcuno o qualcosa e comunque senza una meta predefinita, oppure semplicemente per cercare fortuna. Si imbarca così in ogni sorta di avventura, anche di tipo erotico o delittuoso. Il picaro è caratterizzato da intraprendenza e furbizia, è un intrepido, uno sfrontato che vive di espedienti e improvvisazione. Ogni sua giornata è costellata di imprevisti, peripezie al tempo stesso divertenti, tragiche e grottesche.
Quattro amici, del madrileno Trueba, presenta qualche affinità con il genere picaresco, ne è una sorta di appendice contemporanea con tutte le differenze del caso. Pubblicato per la prima volta nel 1999, può essere definito un romanzo "estivo" secondo una duplice accezione. In primis perché racconta una vicenda ambientata in un torrido agosto di fine secolo; in secondo luogo perché è un libro disimpegnato che si legge con disinvoltura, come nella migliore tradizione delle letture da ombrellone. E invero, sebbene contenga anche delle riflessioni profonde, l'elemento preponderante è quello dell'avventura scollacciata, raccontata con uno stile leggero che spesso trascende nello scurrile.
I quattro amici del titolo hanno tre elementi in comune: sono madrileni, alla soglia dei trent'anni e percepiscono la propria esistenza come una successione di fallimenti. Anzi, è proprio l'idea del fallimento esistenziale che cementa la loro amicizia, nella compassione che ciascuno prova per se stesso e per gli altri. Il primo è Solo, l'io narrante; giornalista d'insuccesso, è reduce dalla fine di una storia d'amore che lo ha lasciato inerme e depresso. Nutre inoltre una forte ostilità nei confronti dei genitori, che invece possono definirsi persone di successo. Poi c'è Blas, studente fuori corso e figlio di un militare franchista; è ossessionato dal sesso e dall'incapacità di soddisfare i propri desideri. Il terzo è Raúl, all'apparenza l'unico realizzato in quanto è sposato e ha due gemelli; in verità, vive il matrimonio e la paternità come due gabbie da cui non può uscire. Infine c'è Claudio, il bello del gruppo, che passa da una relazione fugace all'altra senza volersi realmente impegnare ed è intrappolato in un lavoro misero.
Il nucleo centrale del romanzo è il viaggio che i quattro amici decidono di intraprendere lungo le strade assolate della Spagna di fine agosto, senza una meta e a bordo di un furgoncino appartenuto a un rappresentante di prodotti caseari. Quindici giorni senza regole alla ricerca costante di sesso facile, alcool e divertimento estremo. Più che una vacanza, una vera e propria fuga da mogli, genitori e dai problemi: quindici giorni di pura anarchia nella speranza di ridare vita artificiosamente al fantasma della perduta adolescenza. I quattro simpatici personaggi tratteggiati da Trueba sono degli immaturi, uomini nel fisico ma ragazzini nell'animo. Essi non vogliono farsi carico delle responsabilità che la vita adulta impone e pertanto si rifugiano nel ventre caldo della loro antica amicizia, provando a rivivere le stesse esperienze ed emozioni di quando avevano dieci anni di meno e nessuna responsabilità sulle spalle. Il viaggio è disseminato di incontri grotteschi, epiche ubriacature e fugaci appuntamenti con donne, a loro volta preda di un'analoga solitudine esistenziale. I quattro attraversano paesaggi assolati, riposano su spiagge sporche e sovraffollate, dormono in tenda o in squallidi alberghi, frequentano locali notturni e night, si ubriacano fino a perdere coscienza e commettono anche qualche reato; eppure, nonostante tutte le peripezie, non riescono a trovare le emozioni che stavano cercando. Alla fine dovranno ammettere a se stessi che l'adolescenza è una stagione irripetibile e dolce, ma non prolungabile all'infinito. Ciò che resta è il valore dell'amicizia e dello stare insieme.
«Guardai Blas e Claudio seduti vicino a me, e compresi, in un certo senso, che cos'è l'amicizia. È una presenza che non ti evita di sentirti solo, ma rende il viaggio più leggero.»
Come ho già scritto, è una lettura leggera e senza grandi pretese. Il linguaggio utilizzato da Trueba è estremamente realistico, con abbondanza di parolacce e turpiloquio. Tuttavia, sarebbe semplicistico bollare il romanzo come un prodotto letterario di pura evasione. Quattro amici, infatti, fa divertire ma anche ragionare, perché contiene diversi spunti di riflessione – forse non particolarmente originali ma egualmente validi – su tematiche come il rapporto tra amore e amicizia, il ruolo delle convenzioni borghesi nell'orientare le scelte di ciascuno, la solitudine dell'uomo contemporaneo e la sua volontaria fuga dalle responsabilità. Un problema, quest'ultimo, già sentito venticinque anni fa e quanto mai attuale.

5 agosto 2025

"Viaggi con Charley alla ricerca dell'America" di John Steinbeck: un on the road a metà

Il viaggio in lungo e in largo attraverso gli Stati Uniti, coast to coast oppure da nord a sud, è un vero e proprio topos della letteratura nordamericana, da Kerouac fino ai giorni nostri. Tanti coloro i quali hanno tentato l'impresa per desiderio d'avventura utilizzando ogni mezzo, compresi quelli di fortuna; tra questi, numerosi giornalisti e scrittori che hanno lasciato dettagliati resoconti. Come noto, la letteratura di viaggio è ben più antica e conta opere decisamente più autorevoli e celebri, eppure è indubbio che gli States abbiano un fascino ineguagliabile che attira le anime inquiete o i semplici sognatori. Sarà per gli spazi immensi e la varietà del paesaggio, oppure per l'immaginario on the road costruito da decine di pellicole, oppure per la naturale seduttività di un territorio al tempo stesso fortemente antropizzato e selvaggio, fatto sta che non si contano i diari di viaggio e i romanzi dedicati al tema.
Persino un Premio Nobel ha voluto dare il suo personale contributo. Alla fine dell'estate del 1960 il cinquantottenne Steinbeck, già scrittore celebrato e famoso, decise di intraprendere un lungo viaggio nel suo Paese, seguendo un itinerario praticamente circolare che partiva da Sag Harbor, cittadina costiera dove aveva una seconda casa. Ciò che spinse Steinbeck a tentare l'impresa, sebbene non fosse più giovanissimo, fu l'urgenza di conoscere la propria patria, essendosi reso conto di non conoscerla affatto, o meglio di non conoscerla più. Negli ultimi tempi egli aveva vissuto prevalentemente a New York, in una dimensione artificiale, frenetica e multiculturale che nulla aveva a che vedere con lo spirito più profondo degli Stati Uniti. Il desiderio di recuperare quello spirito smarrito spinse dunque l'autore a organizzare meticolosamente un arduo viaggio in solitaria.
Oltre all'io narrante, due sono gli altri personaggi principali del libro, a cui ci si affeziona presto. Il primo è Charley, un cane di razza barbone francese che si rivela un'eccezionale compagnia soprattutto nelle fredde notti in solitaria. Ovviamente non parla, eppure è in grado di capire e di comunicare a modo suo. Il secondo è Ronzinante, nome perfetto per designare una specie di furgone camperizzato con potente motore V6 a benzina, dotato di ogni specie di comfort, compreso un letto doppio, una cucina, un tavolo ribaltabile e i servizi igienici. L'uomo, il cane e il furgone, come i tre amici del celebre romanzo di Jerome, partono così all'avventura, prediligendo le strade secondarie alle grandi arterie autostradali. Sul punto Steinbeck ha un'idea ben chiara: se vuoi conoscere e vedere il paese reale, non devi affidarti alle strade a grande e veloce scorrimento, in cui si passa senza guardarsi intorno, ma imboccare le vie secondarie, quelle che attraversano i villaggi, i boschi, le campagne, i motel e le rivendite di cianfrusaglie che crescono come funghi ai loro bordi. Una filosofia assai simile a quella di Least Heat-Moon nel suo altrettanto celebre (e forse finanche più bello) Strade blu.
Tuttavia, rispetto ad altri reportage simili, Viaggi con Charley non mi ha entusiasmato. Il motivo risiede nel fatto che il libro può essere suddiviso in due parti, la prima decisamente riuscita e la seconda meno coinvolgente. La prima parte copre pressappoco il primo quarto dell'itinerario seguito da Steinbeck, ossia la parte nord-orientale e quella settentrionale degli Stati Uniti, al confine con il Canada. La scrittura è trascinante, soprattutto quando l'autore racconta le lunghe nottate passate in solitaria ai bordi delle strade in bivacchi improvvisati: sembra quasi di essere al suo fianco a condividere l'avventura. Steinbeck si dilunga in particolari, descrive i paesaggi e le persone incontrate, condivide col lettore la sua quotidianità anche negli aspetti più prosaici. In parole povere, si percepisce il suo entusiasmo iniziale. La seconda metà, invece, sebbene copra la gran parte del tragitto, è frettolosa, come se la stanchezza avesse preso il sopravvento. L'autore ne è consapevole e non nasconde questo senso di fatica che lo colse in itinere; sebbene se ne apprezzi l'onesta, ne esce fuori un libro poco equilibrato nelle sue parti. L'entusiasmo delle prime pagine cede il passo alla stanchezza, le descrizioni da dettagliate diventano frettolose, si percepisce la voglia di Steinbeck di tornare a casa e mettere una pietra sopra quell'idea balzana, realizzata forse fuori tempo massimo. È dunque un on the road riuscito a metà, così come l'obiettivo ultimo del viaggio, riscoprire il vero spirito americano, che non può dirsi pienamente realizzato.
Al di là di questo aspetto, va rimarcato che il libro è ricco di riflessioni profonde e ancora attuali sul rapporto tra passato e presente, sull'inquinamento, l'urbanizzazione selvaggia, l'eterna lotta tra innovazione e tradizione, tra rispetto delle radici e desiderio di tagliarle una volta per tutte. È inoltre una feroce critica al consumismo, alla globalizzazione del pensiero, del linguaggio e dei bisogni, nonché un durissimo atto d'accusa contro le discriminazioni razziali che negli anni Sessanta del ventesimo secolo ancora infestavano gli Stati del Sud, Texas e Louisiana su tutti. Se volete ascoltare una voce autorevole su queste tematiche, lo consiglio; se invece cercate soltanto la pura evasione, meglio dirigersi su altri romanzi, come il celeberrimo Sulla strada, il citato Strade blu, oppure una qualsiasi delle opere di Bill Bryson.

22 luglio 2025

Blind Melon, l'altra faccia degli anni Novanta

In un'ipotetica classifica delle copertine più brutte della storia del rock non potrebbe mancare la sgraziata bambina vestita da ape dell'omonimo disco d'esordio degli statunitensi Blind Melon (1992). Peccato, perché l'album è di tutt'altra pasta e a mio avviso si può tranquillamente collocare tra i migliori di quell'effimera stagione di rock alternativo che tuttavia ha cambiato le sorti della scena musicale fin quasi ai giorni nostri.
Il gruppo si formò a Los Angeles alla fine degli anni Ottanta ed era costituito, nella formazione che registrò il primo LP, da Shannon Hoon (1967-1995) alla voce, Roger Stevens e Cristopher Thorn alle chitarre, Brad Smith al basso e Glen Graham alla batteria. Arrivarono alla prima incisione già con una major, la Capitol Records, che credette nelle potenzialità della band e fu premiata dall'ottimo riscontro di pubblico. Il suono dei Blind Melon in questo album è tutto incentrato sull'alternanza delle due chitarre di Stevens e Thorn, che giocano a rincorrersi su due rette parallele destinate a non incontrarsi. Lo si ascolti in cuffia per rendersene conto: le chitarre seguono due linee melodiche diverse, al punto che non si può dire quale sia la ritmica e quale la solista. Nell'effetto stereofonico delle cuffie la sensazione è tangibile: per dirlo con parole semplici, il riff in cuffia sinistra è diverso da quello della cuffia destra, com'è evidente in brani come Soak the sin e Paper scratcher.
Tre sono le caratteristiche di questa band: spiccato gusto per la melodia, muro chitarristico che sovente si stempera in passaggi più soft e la meravigliosa voce di Shannon Hoon. Si ascolti in proposito Deserted, che incarna al meglio i tre elementi citati. Il suono è un crogiolo di generi diversi, dal grunge alla psichedelia, passando per il folk e il blues; oggi si parla genericamente di "rock alternativo", senza necessità di un inquadramento rigido. Pur non essendo ritenuti grunge in senso stretto, i Blind Melon presentano molte similitudini coi coevi Pearl Jam: non a caso il produttore di questo disco è il medesimo di Ten, ossia Rick Parashar (che in Italia ha lavorato coi Litfiba). I losangelini, però, a differenza dei più famosi di Seattle, inserivano nelle loro canzoni elementi folk, come in No rain e soprattutto in Change, dove addirittura fanno capolino armonica e mandolino. No rain è la hit un po' paracula, ma non è la migliore. L'iniziale Soak the sin, Change e Holyman sono una spanna sopra.
Il disco scorre dall'inizio alla fine senza cali di tensione o di ispirazione. Shannon Hoon regala un'ottima prova (su tutte, I wonder) e aumenta il rammarico su quanto avrebbe potuto dare ancora alla musica, se non fosse morto ad appena ventotto anni. Il disco sorprende proprio per la sua compiutezza, piuttosto insolita per una band al suo esordio. Tredici tracce per quasi un'ora di rock solido e senza tempo che potrebbe essere scritto oggi come quarant'anni fa o in un prossimo futuro. Perché se è vero che i Blind Melon non hanno inventato nulla, è altresì indiscutibile che questo lavoro sia invecchiato molto bene e sia tuttora capace di regalare emozioni, grazie anche a testi semplici ma intimisti. L'ho scoperto tardi e mi rammarico di non averlo conosciuto prima, perché sono convinto che avrebbe potuto essere una delle colonne sonore della mia adolescenza.
Non credo, come pure sostengono alcuni, che i Blind Melon siano una band sottovalutata. Hanno avuto i riconoscimenti che meritavano, sebbene la prematura scomparsa di Hoon abbia contribuito sia a farli entrare nella leggenda, sia a farli dimenticare dai più. Il primo e omonimo è un disco che lascia addosso un senso di freschezza e al contempo di malinconia, come il ricordo di una giovinezza sofferta che col senno di poi appare splendere di una grazia all'epoca impossibile da cogliere. Come detto, il quintetto capitanato da Hoon non ha inventato niente; tuttavia la loro era una pastiche piuttosto originale per quegli anni, che mescolava il solido rock alla Led Zeppelin con il roots sound degli anni Sessanta e la rivoluzione grunge dei Novanta. E se questo album non è oggi molto considerato, forse ciò è paradossalmente dovuto al grande successo commerciale di No rain, che all'epoca li fece apparire come ciò che non erano, dei fricchettoni fuori tempo massimo.
Foto tratte dal libretto interno e, sotto, la brutta ma celebre copertina

7 luglio 2025

I "Litfiba del 2000", una questione di nome

La notizia della ristampa di Elettromacumba, a venticinque anni dalla sua uscita, ha colto di sorpresa molti fan di vecchia data dei Litfiba. Il primo album senza Piero, o se vogliamo il primo con Cabo, non era mai stato ristampato e addirittura non appare sulla discografia ufficiale della band. Se infatti si naviga sul sito del gruppo, si passa direttamente da Infinito a Grande nazione, ignorando completamente i tre dischi di inediti senza Piero Pelù. La ristampa di Elettromacumba, con tanto di firmacopie di Ghigo e Cabo, ha inevitabilmente riportato alla mente quei giorni di inizio Millennio che per tanti appassionati di rock italiano furono un piccolo shock.
Ovviamente tutto va contestualizzato all'epoca e all'età, ma se ripenso a quel giorno in cui fu annunciata la separazione tra Ghigo & Piero, ricordo benissimo il senso di sconforto che mi prese. Avevo poco più di quattordici anni e i Litfiba erano stati il mio primo vero amore musicale. Negli anni successivi ho acquistato centinaia di dischi e ampliato il mio bagaglio musicale, eppure i Litfiba occupano tuttora un posto privilegiato nel mio cuore, assieme ovviamente ai C.S.I. Il primo loro disco che acquistai fu la musicassetta di Mondi sommersi nell'agosto del 1997, pochi mesi dopo la sua pubblicazione. Seguì l'acquisto di tutta la discografia precedente, da Desaparecido in poi, fino all'uscita di Infinito e al successivo annuncio dello scioglimento.
Infinito si rivelò una delusione, sebbene col tempo l'abbia rivalutato, come ho scritto altrove. Eppure alla sua uscita non mi piacque: troppo pop, con canzoni perfino imbarazzanti (Mascherina) e altre che tradivano una virata verso il commerciale (Il mio corpo che cambia) che mal digerii. Il primo disco di inediti che avevo atteso e desiderato era stato un mezzo fallimento, come constatai da subito ascoltando su Radio Rai la presentazione in diretta dell'album. Circa un anno dopo, quando venne annunciato che la band avrebbe pubblicato un nuovo disco con una formazione rinnovata, senza Piero e con lo sconosciuto Gianluigi Cavallo alla voce, fu un altro colpo al cuore, l'ennesimo. Ricordo che ne parlai a scuola con l'unico amico che, come me, pensava che ascoltare musica fosse una cosa seria: impianto hi-fi (anche se all'epoca avevo un compattone Aiwa) e cd rigorosamente originali. Anche lui era spaesato, ma la sua curiosità virava verso l'ottimismo, mentre io la vedevo nera e consideravo l'arrivo del nuovo cantante come un affronto e un tradimento.
Eppure Elettromacumba lo acquistai: prima cautelativamente in copia pirata a 5.000 lire su una bancarella e poi, dopo qualche ascolto di rodaggio, originale a 26.000 lire alla compianta Ricordi Mediastore di Via del Corso. Mi costava ammetterlo, eppure mi piaceva. Anzi, dirò di più: mi piaceva infinitamente più di Infinito. Certo, la voce di Cabo mi sembrò da subito un tentativo di imitazione dell'inconfondibile timbro di Pelù, eppure il disco mi conquistò con le canzoni. Come ho già precisato, tutto va contestualizzato con l'età. Oggi sono consapevole che i tre LP del periodo Cabo sono dei lavori onesti e non certo dei capolavori, sebbene su Insidia andrebbe fatto un discorso più approfondito. Tuttavia all'epoca avevo quindici anni ed Elettromacumba placava la mia sete di elettricità rimasta insoddisfatta con Infinito. Brani come Il giardino della follia, Piegami, Dall'alba al tramonto e soprattutto Spia, hanno quell'energia che si era un po' persa negli ultimi due dischi dei Litfiba classici.
Se la nuova incarnazione dei Litfiba ebbe vita breve, senza decollare mai veramente, a mio avviso dipese dalla scelta di mantenere il nome. Ghigo, come noto, con ostinazione decise di tenere il marchio Litfiba. Questo forse è stato un errore, in primo luogo perché è stata una scelta divisiva. Moltissimi fan di vecchia data, se non la maggioranza, rimasero infatti fedeli a Piero e non seguirono la nuova line-up. Probabilmente se la nuova band si fosse presentata con un altro nome, avrebbe avuto ben altro successo e riconoscimenti, al di là degli inevitabili ma in tal caso innocui paragoni col passato. Mantenere il nome Litfiba si è rivelata un'arma a doppio taglio, perché per quanto Gianluigi Cavallo fosse un ottimo musicista e un carismatico vocalist, i "Litfiba del 2000" non avrebbero potuto reggere il confronto con la figura di Piero, con la propria storia ventennale e con album capolavoro come Desaparecido o 17 Re
A distanza di venticinque anni le polemiche e le prese di posizione non si sono placate e anzi sono state rinfocolate dalla recente ristampa di Elettromacumba. Io non l'ho acquistata perché sono affezionato alla mia copia in cd; sicuramente invece comprerò la ristampa di Insidia non appena disponibile, si spera a settembre. Da più parti poi si chiede un tour celebrativo del periodo post-Piero, portando in concerto i tre album datati 2000-2005. Sebbene sia consapevole che sarà molto difficile, mi unisco al coro degli speranzosi. Mai dire mai.
Ghigo & Cabo nel libretto interno di Elettromacumba

22 giugno 2025

"Una manciata di more" di Ignazio Silone: l'imperdonabile tradimento

La terra è il grande tema della letteratura meridionale del Novecento. O meglio, a voler essere più precisi, è la lotta per la terra tra braccianti e possidenti, "cafoni" e "galantuomini" per dirla con altri termini, ad aver costituito il principale ambito d'interesse di questo filone letterario. Alvaro, Jovine, Alianello, Silone, solo per ricordarne alcuni, hanno descritto nei propri romanzi un Meridione diviso tra le sirene del progresso e il richiamo della tradizione ancestrale, tra le speranze di un futuro migliore e l'amara disillusione che segue alla constatazione che nulla può veramente cambiare. La terra è il termometro di quella società apparentemente immutabile, eppure percorsa da sotterranei fremiti di rivolta: solo quando la terra sarà di chi la lavora, sostengono i meridionalisti, il Sud potrà dirsi veramente liberato dalle antiche catene. Una manciata di more (1952), per molti il più maturo tra i romanzi di Silone, si inserisce in questa corrente di impegno civile.
In una desolata contrada dell'Italia meridionale, un angolo della Marsica tanto cara all'autore, si consuma una vicenda che è lo specchio di quel che accadeva in altre centinaia di identiche località del Mezzogiorno. Qui la terra è identificata nella "selva" e i possidenti sono i membri della famiglia Tarocchi. La selva è una vasta foresta da secoli contesa tra i miseri braccianti, che ne rivendicano l'uso comune secondo antiche servitù, e i membri della potente famiglia dei Tarocchi, che con sotterfugi, imbrogli e ingiustizie la vogliono tutta per sé. Eppure anche in questa landa misera e arsiccia si alza il vento della rivoluzione, o meglio il suo suono: c'è una tromba che incita i contadini a riunirsi e a marciare per far valere i propri diritti. Nessuno sa con precisione dove si trovi, perché subito dopo l'uso viene nascosta per impedire che le autorità la sequestrino. Così è successo con le rivolte sociali di inizio secolo e poi durante il fascismo; ogni volta che il suono della tromba si è diffuso nella vallata, i ricchi proprietari terrieri, appoggiati di volta in volta dalle autorità, hanno tremato, temendo di perdere i loro privilegi.
Caduto il regime fascista e terminato anche il secondo conflitto mondiale, nulla è cambiato nelle campagne della Marsica. Un nuovo attore è tuttavia apparso sulla scena, quel Partito Comunista che ha ambizioni di governo, dopo gli anni della clandestinità e la vittoria nella guerra di Liberazione. Per quanto sia un romanzo corale, il personaggio principale può essere identificato in Rocco De Donatis, di professione ingegnere, figlio eletto di quella terra funestata dalla miseria e dalle tragedie umane e naturali (il terribile terremoto del 1915). Rocco è un dirigente comunista, eppure in lui cresce l'insofferenza nei confronti del Partito, fino a trasformarsi in aperta ostilità. Rocco è appena tornato da un viaggio in Unione Sovietica, dove ha visto il volto crudele dell'ideale politico a cui ha dedicato tutta la propria vita. Ha scritto un memoriale sulla sua esperienza nella terra dei soviet e, tornato in Italia, assume un atteggiamento critico contro le decisioni dell'alta dirigenza, prona ai diktat di Mosca. Rocco invece vuole fare di testa propria e addirittura ha una convivenza more uxorio con una ragazza ebrea di nome Stella, attirandosi ancora di più le ire dei papaveri di Partito. In breve inizia una campagna di delegittimazione nei suoi confronti, fino al palese ostracismo.
La drammatica vicenda di Rocco svela ambiguità e ipocrisie del Partito, sebbene entrambi teoricamente perseguano il medesimo obiettivo, ovvero la tutela dei diritti dei contadini. Una manciata di more è dunque un durissimo atto d'accusa contro il P.C.I. Silone sembra voler dire che la questione vera, il male profondo del Mezzogiorno, è nella mancata riforma agraria, promessa da tutte le forze di governo succedutesi dal 1861 e mai realizzata. E la cosa ancora più grave è che neppure il Partito Comunista abbia messo mano alla questione, sebbene a rigor di logica fosse quello che sosteneva le rivendicazioni dei braccianti. Ecco perché per Silone le etichette ideologiche sono inutili e finanche dannose, così come lo sono per il suo personaggio Rocco, di cui è evidente lo spunto autobiografico.
La fotografia che viene fatta del Partito Comunista è impietosa: ne esce l'immagine di un'organizzazione asfissiante, bigotta, assuefatta dagli stessi vizi borghesi che vorrebbe estirpare, una struttura che non ammette il dissenso interno e mette a tacere le voci critiche. E allora, ai contadini meridionali traditi persino da chi avrebbe dovuto difenderli, non resta che mettere mano ancora una volta alla tromba che da secoli li chiama a raccolta.
Recente edizione Oscar Mondadori

9 giugno 2025

Daryl Zed: chi sono i mostri?

La pubblicazione in unico volume della miniserie dedicata a Daryl Zed era attesa dal 2020, ma ha visto la luce soltanto a maggio di quest'anno. L'albo tutto a colori di 192 pagine, ovviamente a cura di Sergio Bonelli Editore, è disponibile in edicola al prezzo di 7,90 euro. Il volume era già pronto da anni, come detto, ma non era mai stato distribuito. Le ragioni del ritardo sono state spiegate da Tiziano Sclavi in una lettera aperta che potete trovare sul sito della Bonelli.
Daryl Zed è un'opera di meta-fumetto, nel senso che si tratta di un espediente narrativo per cui un fumetto (Dylan Dog) contiene al suo interno un'altra testata (Daryl Zed), che a sua volta contiene un terzo fumetto (ancora una volta Dylan Dog). Nella finzione letteraria di Dylan Dog, Daryl Zed è un fumetto scritto da un amico di Dylan ispirandosi proprio alla figura dell'Indagatore dell'incubo. E nella finzione letteraria di Daryl Zed c'è un amico del protagonista, un fumettista chiamato Tiz con le sembianze di Sclavi, che ha creato un fumetto chiamato Dylan Dog, ispirandosi alle avventure di Daryl. Insomma, un complicato gioco di scatole cinesi in cui Dylan è fonte di ispirazione per Daryl che a sua volta è fonte di ispirazione per un altro Dylan.
Il personaggio fece la propria comparsa nell'albo 69 di Dylan Dog, intitolato Caccia alle streghe, celebre soprattutto perché si inserì nella vera e propria crociata che taluni esponenti della politica e dell'associazionismo lanciarono all'epoca contro alcuni fumetti, ritenuti un'incitazione alla violenza, se non addirittura un'istigazione a delinquere. Quelle prese di posizione, lo dico per inciso, fanno quantomeno sorridere se pensiamo ai giorni nostri, in cui smartphone e social stanno creando un esercito di veri e propri zombies privi di fantasia, al confronto dei quali i tanto bistrattati fumetti avevano quantomeno la capacità di stimolare l'immaginazione dei lettori.
Daryl Zed non è altri che un personaggio secondario (anzi, del tutto marginale) che diventa protagonista di una propria serie. L'albo della Bonelli ora in edicola contiene tre storie, tutte legate da un filo conduttore: I mostri sono loro (Faraci/Mari), Il sangue è acqua (Faraci/Stano) e Cerchio chiuso (Faraci/Dell'Edera). Il tutto condito da una vivace colorazione in stile pop art con le pagine deliziosamente ingiallite, a dare un'aura rétro.
Il protagonista è semplicemente un cacciatore di mostri, come chiarisce anche il titolo dell'albo, un uomo tutto d'un pezzo dalla mascella squadrata e dai modi bruschi che per lavoro libera il mondo da ogni sorta di creatura malvagia: alieni, rettiliani, licantropi e soprattutto vampiri. Una specie di Maurizio Merli o Luc Merenda nei panni del commissario di ferro dei poliziotteschi italiani degli anni Settanta. Daryl si muove in un mondo che potrebbe appartenere al recente passato o al prossimo futuro, caratterizzato da atmosfere cupe e spesso violente, un mondo che è messo in pericolo dai crimini efferati commessi da bizzarre creature, per l'appunto i mostri. È pertanto necessario l'intervento repressivo della polizia, coadiuvata dal nostro eroe. Una trama semplice, una struttura classica e lineare, potremmo dire tagliata con l'accetta, tutto il contrario delle raffinatezze di Dylan Dog. Daryl infatti non è un personaggio con velleità artistiche o letterarie; ha lo sguardo cinico e duro, porta sempre in bella vista una pistola e parla come un qualsiasi piedipiatti di un romanzo hard boiled.
Ci sono delle somiglianze tra Dylan e Daryl: entrambi hanno un amico poliziotto, sono schivi e solitari, vivono situazioni al limite con personaggi ricorrenti (su tutti, Johnny Freak). È però diversa, anzi antitetica, la filosofia dei due personaggi, la prospettiva da cui osservano la realtà. Dylan è un uomo tormentato che sa di non avere la verità in tasca; per lui il mondo non è solo bianco e nero, ma fatto di tante gradazioni di grigio, al punto che non è facile capire chi siano davvero i mostri. «I mostri siamo noi» è solito ripetere, a voler significare che il male può albergare in tutti, qualunque significato possa avere il concetto di "male", che per Dylan non è universale. Daryl invece ha una visione manichea del mondo, fatto di buoni e cattivi, dove i primi sono indiscutibilmente positivi e i secondi sono irrimediabilmente malvagi; non esistono sfumature, non è possibile sbagliare e i mostri vanno liquidati senza pietà né ripensamenti. «I mostri sono loro» è solito affermare, né ammette che tale assunto possa essere messo in dubbio.
Leggere Daryl Zed è come affrontare Dylan Dog in una prospettiva rovesciata, un gioco degli specchi in cui l'orrore è il medesimo ma senza possibilità di redenzione o di differenti interpretazioni. La domanda allora resta aperta: ma chi sono veramente i mostri, noi o loro?

26 maggio 2025

"Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Erich Maria Remarque: la generazione tradita

Voler parlare su queste pagine di un romanzo così celebre e celebrato ha poco senso. D'altronde, cosa mai si potrà dire di nuovo? Al tempo stesso, però, quando un libro è un classico ha sempre qualcosa da raccontare, anche a distanza di anni e di migliaia di recensioni e saggi critici.
Dell'opera principale di Remarque, vero e proprio classico moderno, è stato scritto tutto; tradotta in tante lingue e venduta in milioni di copie, non c'è bancarella dell'usato in cui non se ne trovi anche più di un esemplare. La trama è arcinota: alcuni giovani studenti tedeschi, infiammati dalla propaganda sciovinista, si arruolano volontari per combattere nella Prima guerra mondiale, inconsapevoli di ciò che li attende una volta giunti al fronte. Moriranno quasi tutti, schiantati dalle artiglierie, colpiti da proiettili vaganti, dilaniati dalle schegge, avvelenati dai gas, perfino pugnalati nei terribili assalti all'arma bianca nelle trincee nemiche. Il libro nulla nasconde degli orrori visti e delle sofferenze patite da tutti quei giovani, alcuni poco più che bambini. Un resoconto autentico, duro e tagliente come sa essere solo la verità.
Consapevole di non poter dire nulla di nuovo o di originale, voglio concentrarmi soltanto su un aspetto, quello che mi ha colpito di più. Perché se è vero che Niente di nuovo sul fronte occidentale è principalmente un grido d'accusa contro l'insensatezza della guerra e uno straordinario manifesto pacifista, c'è un altro tema che a Remarque stava particolarmente a cuore, ovvero il tradimento generazionale. Paul e gli altri sono convinti ad arruolarsi dal loro professore di liceo, il nazionalista Kantorek. Questi è un uomo tutto sommato insignificante, che tuttavia grazie a doti retoriche e al carisma esercitato sugli studenti per via del suo ruolo, li persuade ad arruolarsi volontari, di fatto spedendoli al macello. È lui il vero traditore, secondo Remarque, un uomo che ha barattato il suo ruolo di educatore con gli ideali stantii del nazionalismo e del bellicismo.
«Essi dovevano essere per noi diciottenni introduttori e guide dell'età virile, condurci al mondo del lavoro, al dovere, alla cultura e al progresso; insomma all'avvenire. […] Al concetto dell'autorità di cui erano rivestiti, si univa nelle nostre menti un'idea di maggiore prudenza, di più umano sapere. Ma il primo morto che vedemmo mandò in frantumi questa convinzione. Dovemmo riconoscere che la nostra età era più onesta della loro. […] Il primo fuoco tambureggiante ci rivelò il nostro errore, e dietro ad esso crollò la concezione del mondo che ci avevano insegnata.»
Questo è, secondo me, il tema centrale del romanzo, un significato forse più nascosto rispetto al palese messaggio pacifista (o meglio, antimilitarista tout court), eppure altrettanto se non addirittura più potente. I valori propagandati dalla classe dirigente crollano al ritmo del disvelamento delle loro menzogne, cadono nelle trincee fangose, sebbene i "professori" continuino imperterriti a propagandarli. E così i civili rimasti a casa non conoscono nulla del fronte, se non le mezze verità e le clamorose bugie raccontate dagli organi di stampa e dalla propaganda. Si opera pertanto un brusco taglio generazionale, destinato a non ricucirsi più. Gli adulti, coloro che avrebbero dovuto istruire i giovani e prepararli al futuro, li hanno invece condotti al massacro sull'onda di discorsi patriottici che si sono rivelati fallaci e menzogneri. La loro colpa è gravissima, quella di aver "contaminato i più schietti sentimenti giovanili", come argutamente riportato nell'introduzione di una vecchia edizione Oscar Mondadori. È la rottura di un patto generazionale, il tradimento della missione educativa, il traviamento dei ragazzi, portati su una strada sanguinosa che da soli mai avrebbero intrapreso. Il grido di rabbia di Remarque è dunque diretto contro quei burattinai che, ben nascosti nelle retrovie, hanno fomentato nei giovani un artificioso spirito belluino che in natura non gli apparteneva.
I soldati di Remarque sono costretti a sparare contro il proprio futuro; il loro è un destino di desolazione, anche per quanti sono all'apparenza scampati alla morte. La migliore gioventù ridotta a un bivacco di profughi lacerati nell'anima, una generazione annientata nel corpo e nello spirito, al punto che anche chi rimane non è davvero un sopravvissuto. Ragazzi a cui la porta dell'avvenire è stata definitivamente chiusa in faccia, perché anche quando torneranno a casa non troveranno che macerie.